Frida Kahlo e il Messico. Un’endiadi. Iniziamo con un giudizio di Diego Rivera, il grande pittore muralista che la sposò due volte (nel 1928 e nel 1940, dopo il breve divorzio del 1939), il “grosso rospo”, il marito protettivo, il bambino pingue bisognoso di affetto, quello mai nato, il “Diego. io / Diego. universo / Diversità nell’unità” che, nonostante i tradimenti raffigurati nei dipinti come devastanti coltellate (cfr., Qualche colpo di pugnale, 1935), per un moto spontaneo sapeva far posare la “leggiadra colomba”, – dando quiete alle sue ali fisiche incapaci di sostenere il desiderio di volare innato nella sua anima, in ogni anima -, nel circolo de L’amoroso abbraccio dell’Universo (1949), il grembo di Cihuacoatl, la Dea Madre azteca, l’identità degli opposti, dolore e piacere, tenebra e luce, luna e sole, la vita nella morte e la morte nella vita, dualismo costante nella sua intera opera, così arcaica, radicata nelle cosmologie precolombiane quanto le agavi e i cactus nei terricci di cenere e sale. Sul “Mexicanismo” di Frida, Diego scrisse: “critici di diversi paesi hanno definito la pittura di Frida Kahlo come quella più penetrante e più tipicamente messicana del momento. Con questo giudizio sono completamente d’accordo. […] Tra i pittori affermati sul mercato artistico, che fanno parte della sovrastruttura dell’arte nazionale, Frida Kahlo è l’unica a collegarsi direttamente, senza ipocrisie e pregiudizi estetici, a questa pura produzione d’arte popolare interessata alla cosa in sé.” Il riferimento è alla tradizione pittorica del meticciato messicano, frutto dell’incontro tra il sostrato precolombiano e la cultura spagnola, quella delle icone votive e degli ex-voto, stilizzata, aprospettica, simbolica, didascalica, ancorata alle esperienze elementari, ai misteri elementari.
Frida Kahlo nel 1932, fotografata da suo padre
Nella Città del Messico delle avanguardie artistiche, la Kafkatitlan che attirava intellettuali di mezzo mondo, del livello di Majakovskij ed Artaud, l’unico luogo del pianeta “istintivamente surrealista”, come lo definì Breton, assiduo frequentatore con la moglie Jacqueline Lamba della coppia Kahlo-Rivera, Frida rimase genuinamente, ingenuamente messicana: “pensavano che anche io fossi una surrealista, ma non lo sono mai stata. Ho sempre dipinto la mia realtà, non i miei sogni”. Certo, con una consapevolezza ideologica e culturale novecentesca, di matrice marxista, che la portò ad analizzare e tematizzare le contraddizioni della civiltà capitalistica, grazie anche ai viaggi negli USA, dove si trovò in bilico tra due mondi, quello antico, cosmico, del Messico, e quello industrializzato e allucinante dei gringo. Non a caso Frida, a Parigi, rimase disgustata dai surrealisti europei, “così maledettamente intellettuali e decadenti”: nell’Europa dominata dal nazifascismo si era reciso il cordone ombelicale tra l’uomo e l’universo, scissi e comunicanti solo nell’algida tangenza del dominio tecnico-scientifico. Frida Kahlo è stata una donna del XX secolo, eppure, forse proprio in virtù della sua femminilità esibita con orgoglio e dignità, una figlia ancora in grado di avvertire il flusso vitale, materno, della terra, materia, madre, In primis la sua, il Messico, con l’humus stratificato e tumido di “tezontle”, lavico, nero e ferroso, da cui affiorano pietre porose, idoli indi della fertilità, fiori simili a pesci che si tramutano in uccelli. Un repertorio di immagini e simboli volutamente arcaici, che ora si stagliano, ora si confondono, tra le macerie del presente. Non una riesumazione nostalgica, ma il tentativo rigoroso di rintracciare uno stile figurativo e un fine narrativo. Una donna emancipata e fragile, icona pop dall’aspetto matriarcale. La storia familiare della pittrice (cfr. I miei nonni, i miei genitori e io, 1936) fa della sua geneaologia un concentrato dell’identità messicana che si affaccia all’età moderna.
Autoritratto con collana di spine e colibrì, 1940
Venuta alla luce nel 1907, nonostante il cambio di data ufficiale col 1910, voluto in modo da porre i propri natali sotto l’auspicio di libertà della Rivoluzione messicana di Emiliano Zapata e Pancho Villa, nel ramo materno di Frida confluiva il sangue di generali spagnoli e nativi della Morelia, mentre da parte paterna le origini si ricollegano a una stirpe di ebrei ungheresi immigrati in Germania. Il Vecchio e il Nuovo Mondo, la componente più sedimentata della “raza”, che qui, osserva Pino Cacucci ne La polvere del Messico, non è solo un concetto etnico o genetico, bensì la ricerca accorata di un’identità comune, spirituale, che tenga assieme tutte le stirpi e culture di un popolo variegato, distribuito su un territorio immenso, e l’innesto della recente immigrazione europea.
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Pianeta Gaia è media partner della mostra "FRIDA KAHLO through the lens of Nickolas Muray” che si tiene alla Palazzina di Caccia di Stupinigi dal 1 febbraio al 3 maggio 2020. Per i biglietti della mostra cliccate qui.