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Nella Valle dell'Omo, Etiopia - Parte I

Diario di un viaggio in un museo a cielo aperto
02 Aprile 2012

 

1° giorno 

Partenza il 16 ottobre 2010, voli Bologna-Francoforte e Francoforte-Addis Ababa, con decollo ritardato di mezz'ora perché, quando stavamo per imboccare la pista, una spia non si spegneva e i piloti hanno chiamato i tecnici per i controlli del caso al mezzo. Arrivo nella capitale etiope, so che l'aeroporto è ad appena 5 km dalla città e quindi il taxi non dovrebbe costare molto. Sbrigo le formalità (il visto si ottiene in entrata, pagando 17 euro) e prenoto il taxi, nell'apposito sportello, dove mi dicono che per andare al mio alberghetto si pagano 160 birr (al cambio circa 7 euro). Salgo sul taxi e dopo aver percorso circa 100 metri mi ricordo che la guida consigliava di mettersi d'accordo in anticipo, per evitare incomprensioni all'atto del pagamento. Gli dico: "160 birr, ok?" e lui "10 dollars". La risposta mi puzza un po', ribadisco: "160 birr. That's the price the girl stated. That's what I will pay". Non risponde. Ripeto "160 birr, I will not accept a different price". Arriviamo, scendo e, come temevo, comincia lo sfaccettamento di zebedei nel tentativo di lucrare gli ulteriori due spicci: "la tariffa è di 10 dollari, che corrispondono a 180 birr". Purtroppo non ho i soldi contati, ho appena cambiato e ho solo pezzi da 50 birr: se gli dò 200 birr so già che il resto me lo posso sognare. Gli chiedo se ha il resto e, come ampiamente previsto, dice che non ce l'ha. Ma nemmeno voglio iniziare subito a sventolare bandiera bianca di fronte a questi trucchetti, anche se parliamo di una miseria. Gli dico: "Guarda ti dò 150 birr e poi 1 euro (al cambio 23 birr) che è già di più di quanto mi era stato detto dallo sportello". Lui si lamenta ma in dialetto romagnolo lo saluto e vado nell'alberghetto.

 

Alberghetto che la Bradt Guide definisce il più pulito tra quelli economici. Costo 172 birr, pari a circa 7,50 euro. La stanza è decente a prima vista. Vado nel bagno comune (sembra che io sia l'unico ospite) e vedo, per la prima volta in vita mia nonostante le tante bettole frequentate, una pulce sul mio braccio. La prendo e la sasso nel lavandino, apro il rubinetto e scompare giù dal tubo. Cavolo, le pulci poi no, eh. Faccio la doccia, torno in camera e ispeziono il letto: lenzuola pulite, nessuna traccia di animali. Mi tranquillizzo e non utilizzo il sacco a lenzuolo.

 

Al ritorno dal mercato

Al ritorno dal mercato - Archivio Fotografio Pianeta Gaia

 

2° giorno

Da oggi sono a carico del tour operator che ha organizzato il viaggio. Mi vengono a prendere all'alberghetto due auto: una sulla quale viaggerò assieme ai miei compagni di viaggio e un'altra dove, oltre al cuoco, c'è tutto il materiale da campeggio e cucina da campo visto che nella prima settimana saremo in zone dove non ci sono né alberghi né ristoranti. Conosco i miei due compagni di viaggio ed è subito show time! chiedo: "Di dove siete, ragazzi?". Uno mi risponde: "Di Ravenna". E io: "Incredibile! Io sono di Lugo!" e lui: "Come di Lugo? Anch'io sono di Lugo! Ho detto Ravenna solo perché di solito Lugo non la conosce nessuno...". La mezz'ora seguente passa nello snocciolare le conoscenze in comune. L'altro è un ragazzo di Perugia. Entrambi sono residenti ad Addis Abeba, entrambi accomunati da un'esperienza di adozione di bimbi etiopi, entrambi (scoprirò in seguito) animati dal desiderio di entrare a far parte come guida/accompagnatore del tour operator la cui titolare conoscono di persona. In seguito capisco che, proprio per quest'ultimo motivo, nessuno di loro ha realmente espresso parere sull'itinerario, che in pratica ho deciso io a tavolino col tour operator. Difatti, pigliandomi in giro, da quel momento in poi ad ogni bel posto visitato mi diranno: "Ma guarda in che bel posto ci hai portati!" e ad ogni sfiga: "Ma dove cavolo ci hai portati?". Si parte, col perugino che, pure lui fotografo, mi lascia il "posto del morto". Poi proverà ad andare davanti ma è troppo alto (197 cm, ex pallavolista) e quindi la postazione diventa in pratica mia per il resto del viaggio.

 

Prima tappa a Woliso, a visitare il mercato. La prima parte dell'itinerario, fino all'attraversamento del fiume Omo all'altezza di Omorate sarà la parte meno frequentata. Non siamo lontanissimi da Addis Abeba ma di turisti in questa parte di Etiopia se ne vedono ben pochi e si respira già l'aria dei posti poco visitati. Fai la foto e la gente non ti guarda in cagnesco in attesa di protendere la mano per riscuotere pochi birr subito dopo lo scatto, anzi si lascia ritrarre spesso col sorriso. Poi una volta fatta la foto, gli vai incontro e gli mostri il risultato sullo schermo della digitale: per molti è ancora una sorpresa vedersi, le reazioni passano da risate fragorose a moti di timidezza. Proseguiamo su una buona strada asfaltata e facciamo tappa a Wolkite, dove c'è un altro mercato. Tutti smettono di fare quello che stanno facendo e ci seguono con lo sguardo, stupiti del fatto che dei bianchi si siano fermati in quel posto dove non c'è nulla di interessante. Mentre giriamo in mezzo a loro, quasi tutte donne, si capisce che gli occidentali sono davvero merce rare in queste lande: non appena punto l'obiettivo la maggior parte di loro si copre il volto, con un misto di pudore e ritrosia, comune alle donne di fede musulmana quali paiono essere, vista la quantità di teste velate. La sosta successiva la facciamo a Liban dove c'è un altro mercato, questa volta più "africano": più colorato, più incasinato, più grande, la gente meno timida. Giriamo col codazzo di bambini, ad ogni sosta ci sono decine di paia di occhi che ti guardano come si guarda qualcosa alla tv. La nostra guida, un ragazzo mezzo Amhara (l'etnia dominante in Etiopia) e mezzo Tigrino (cioè del Tigrai), parla un ottimo italiano, ci sa fare, scherza coi bambini, attacca bottone coi locali e riesce sempre a stabilire un clima simpatico. Anche il mio compaesano, che vive in Etiopia da 3 anni e conosce abbastanza l'amarico è un discreto casinista e quindi la combriccola è vivace. Bene, visto che io, volendo fare delle foto, possibilmente senza destare troppe attenzioni, preferisco tenere il profilo basso e rimanere più defilato.

 

Presenze inquietanti a bordo strada

Presenze inquietanti a bordo strada - Archivio Fotografio Pianeta Gaia

 

In serata si giunge a Jima, la capitale del caffè che, per chi non lo sapesse, è una bevanda di culto in Etiopia. C'è anche la cerimonia del caffè, con l'incenso, ma io il caffè non lo bevo. L'albergo è nuovo di trinca, il primo di tanti alberghi di recentissima costruzione, di solito eretti dai cinesi che stanno monopolizzando il boom edilizio, dove pernotteremo. Incredibile ma vero c'è pure il wi-fi gratuito e ne approfitto per una breve connessione sul web. Sarà un'illusoria immagine di un'Etiopia moderna che non c'è ancora: dal giorno dopo e per una settimana intera l'unico modo per contattare il mondo sarà il telefono satellitare della guida.

 

3° giorno

Attraversiamo il territorio abitato dai Gurage, un popolo dai costumi ormai moderni ma che vive ancora in belle capanne dal tetto alto. Entriamo a vederne una, dentro c'è la donna che prepara il caffè, tostando i chicchi in una specie di padella. Mentre siamo a sedere sentiamo dei colpi di tosse provenire dalle nostre spalle: non ce n'eravamo accorti, ma il padrone di casa è steso dietro di noi, scosso da colpi regolari di tosse. "Che cos'ha?" chiede la nostra guida. Non si sa, forse la malaria. "E perché non lo portano all'ospedale?". Perché costa, sia andarci che farsi curare. Alla fine, quando ormai sarà talmente grave da non poter più fare nulla, si decideranno a portarglielo, spendendo così anche gli ultimi soldi...

 

Incidente stradale

Incidente stradale- Archivio Fotografio Pianeta Gaia

 

Arriviamo a Wushwush, terra di piantagioni di tè. Scendo dall'auto, la piantagione è lì, a bordo strada, mi inoltro di un paio di metri, non di più, scatto un paio di foto e torno sulla strada. Sento qualcosa che punge, in una gamba. Mi guardo e non vedo nulla. Penso: "Sarà qualche spino che è rimasto attaccato ai pantaloni...". Sento un altra puntura, in un altro punto della gamba. Poi un altra. Allora, in barba al galateo, mi abbasso i pantaloni e vedo tre formiconi che mi stanno mordendo la coscia. Le strappo una ad una e le butto via. Rapida ispezione: pare non ce ne siano più. Ahia, ne ho una sulla schiena e devo ricorrere ad uno dei miei compagni di viaggio per liberarmene. Giungiamo a Bebeka, dove c'è una piantagione di caffè statale, uno dei prodotti più importanti del paese, non prima di aver visto per strada almeno un paio di autobus usciti di strada in malo modo (è il terzo in 2 giorni). Si pernotta nelle casette costruite apposta per il personale, noi in quelle riservate ai dirigenti. Per essere spaziose sono spaziose, e anche dotate di una piacevole veranda dove ceniamo, il resto però è davvero basico: l'acqua che esce dai rubinetti ha lo stesso colore della bevanda i cui chicchi vengono lì coltivati, non c'è zanzariera (e allora userò la mia da viaggio) e per tutta la cena un pipistrello ci svolazza sopra la testa, facendo decine di circumnavigazioni della casetta. Cena a base di pollo, uno dei due che dalla partenza era issato sul portapacchi della jeep del cuoco e che vedevamo svolazzare col piede legato alle taniche di scorta di carburante: ora l'altro è solo, chissà se si sarà reso conto che la sua fine si appresta. Almeno chiude in bellezza: prima di passare a miglior vita vede, come noi turisti, dei lussureggianti paesaggi. Da queste parti è tutto molto verde.

 

continua...

 

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