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Etiopia: Dancalia e Rotta Storica - I

Il dettagliato diario di viaggio in Etiopia del nostro Luca
09 Maggio 2014

 

1° giorno

Da Bologna in treno con un intercity notte raggiungo Roma, dove col Leonardo Express in 30’ sono all’aereoporto di Fiumicino. Da lì con volo Egyptair in 3:15 arrivo a Il Cairo e con pochi controlli mi trovo all’imbarco per Addis Abeba dove arrivo dopo 3:45. All’aereoporto viene applicato il visto senza nessun problema, pratica lunga perché il tutto vien fatto manualmente. Mentre si attende la registrazione del passaporto c’è l’opportunità di cambiare soldi a qualsiasi ora e così son quasi le 4 del mattino quando un pulman della Green Land Tour ci porta verso un hotel recuperato all’ultimo, non troppo lontano (l’aereoporto, una delle uniche costruzioni in condizioni perfette dell’intera Etiopia, è praticamente in città). L'hotel ha camere di vario tipo e visto che il sole sta già per sorgere non ci si pensa troppo nel buttarsi nel primo letto incontrato. Nonostante sia estate, di notte il freddo si coglie appieno (6°), i quasi 2400 m della capitale rendono molto miti le stagioni.

 

2° giorno

 

Sveglia alle 9:30 e colazione in hotel (uova alla maniera che preferite, burro e miele, altro non c’è), poi inizia l’esplorazione della città, con sosta presso l’agenzia con la quale viaggeremo per le tre settimane, a confrontare se abbiamo tutto il necessario per sopravvivere in Dancalia e per un primo controllo delle jeep. In città prima sosta al museo nazionale, famoso per i calchi di Lucy, il primo ominide comparso sulla terra oltre 3 milioni di anni fa. Tutta questa parte legata a Lucy è visibile nel piano interrato, meglio segnalato e custodito, le altre parti paiono un po’ un grande magazzino/deposito. Si continua con la visita della Cattedrale della Santissima Trinità, dove giace l’imperatore Selassiè, venerato ovunque nel paese. Le messe si susseguono, con prediche infinite, e fanno sempre bella mostra di sé i vari sacerdoti innalzanti le croci copte, che diventano familiari con proseguire del viaggio in Etiopia.

 

A fianco della cattedrale sorge il palazzo di Menelik (che qui trasferì la capitale sul finire del 1800), ora sede del Primo Ministro. Già guardare nella direzione del palazzo è considerato pericoloso, quindi evitate qualsiasi accenno a foto in quella direzione, soldati armati spuntano all’improvviso con modi poco amichevoli. Da qui la prossima tappa è alla Cattedrale di San Giorgio (San Giorgio è il patrono dell’Etiopia, ed anche il nome della birra più diffusa) dove si può accedere sia alla chiesa che al museo, piccolo ma interessante, visitabile con guida compresa nel prezzo del biglietto. Da ricordare che questa cattedrale fu costruita su volontà di Menelik per ricordare la vittoria etiopie di Adua sugli italiani invasori, ad oggi l’unica vittoria del popolo africano nei confronti di un esercito occidentale che si ricordi nella storia.

 

Poi è tempo per la ricerca più importante del viaggio, quella dell’acqua da portarci al seguito in Dancalia. Non si sa con esattezza quanti giorni potremmo rimanere in luoghi con l’impossibilità di trovare acqua potabile, potrebbero essere anche dieci, quindi occorreranno 50 litri d’acqua a testa, e trovarli per tutti ad Addis richiede parecchio tempo. Così quando la ricerca finisce è già tardi e non ci resta che cenare nel ristorante dell’hotel, in maniera tutto sommato positiva.

 

Injera e shiro

Injera e shiro

 

3° giorno

 

Colazione di nuovo in hotel, stesso menù del giorno precedente, schivando un terribile succo di mango (che in Etiopia viene riproposto con bella continuità) e poi cercando una logica ben precisa si inizia a stivare nelle jeep tutta la mercanzia per i futuri giorni in Dancalia, facendo in modo che l’acqua sia sempre a portata di mano ma non troppo esposta al sole e che tutte le casse degli alimentari vengano divise e identificate a seconda che si utilizzeranno per colazione o pasti maggiori (sembra roba da poco ma una volta nell’inferno questa classificazione sarà qualcosa di fondamentale). Ora è tempo di partire verso Awash lungo la bella strada asfaltata che va verso il Gibuti. Questa è praticamente l’unica strada in buone condizioni, del resto tutto ciò che entra ed esce dal Corno d’Africa deve passare dal porto di Gibuti e quindi i collegamenti devono essere buoni. Si notanto però già tanti camion bloccati per problemi meccanici lungo la strada, quando non per incidenti seri.

 

La strada viaggia comunque sempre tra saliscendi e dopo una grande discesa si apre un grande lago bordeggiato da vasche di acqua chiuse da lava, dove si abbeverano gli animali che i locali portano lungo la strada. In questo punto la strada costeggia la ferrovia in via di ristrutturazione sempre in direzione Gibuti. Ci fermiamo a Metahara per pranzare in un, per modo di dire, hotel dove iniziamo a prendere dimestichezza con la base di tutti i piatti etiopi, la injera. Si tratta di una specie di sottopiatto spugnoso che si utilizza spezzandola per far da presa con qualsiasi cosa la si ricopra, solida o semiliquida. Da mangiare da sola non è potabile, accompagnata a certi condimenti (il meglio è lo shiro, polvere di ceci che diventa una salsina piccante) non è male. Più la si trova bianca e sottile meglio è come qualità, sembra una stupidata ma ci accorgiamo alla lunga che alcune alte e nere non sono commestibili.

 

Lungo il percorso (dove intanto la temperatura inizia a superare i 30°) che ci porta ad Awash, ci imbattiamo in iene (alcune spiaccicate sull’asfalto), scimmie e orici, attraversando di già il Parco Nazionale dell’Awash. Lasciate le nostre cose presso l'albergo andiamo a visitare il parco. Deve esserci al seguito almeno una guida armata, nel parco si vedono pochi animali (imbarazzante la visione di un leone in gabbia in piena Africa), qualche scimmia e un orice proprio nei nostri paraggi, oltre a svariati uccelli che fanno da sfondo al tipico tramonto africano, sole che da giallo diventa una palla rossa in un battito di ciglia e saluta velocemente il giorno.

 

Tra la secca savana spicca un'imponente cascata, dove volendo si può fare il bagno. Rientriamo in città presso l’hotel che si trova tra le due parti della vecchia stazione ferroviaria. La dependance in perfetto stile coloniale è un lusso che non mi sarei atteso in questi luoghi, mentre il ristorante propone molti piatti. Scegliendo il dare wat, stufato di pollo, mi accorgo che corrisponde al vero il fatto che ogni piatto wat è assai piccante, ma comunque molto buono e soluzione ideale per affogarci l’injera. Come primo giorno percorsi 300 km, quasi tutti su ottime strade.

 

Afar lungo la strada: il kalashinikov è sempre a portata di mano

Afar lungo la strada: il kalashinikov è sempre a portata di mano

 

4° giorno

 

Colazione in hotel (le uova come soluzione obbligata) poi via lungo una strada sempre piena di camion incidentati. Il re delle strade è il Fiat 682, pezzo per noi da collezione, che dettava legge sui nostri percorsi tra i ’60 ed i ’70. Si lascia la strada per Harar per iniziare a salire verso la parte sud della Dancalia. Si iniziano a notare le case costruite coi rami degli alberi e la gente che cammina non col bastone sulle spalle (tipica postura da etiope) ma col kalashnikov. Sulle prime fa impressione, ma avendolo praticamente tutti diventa quasi coreografico, tranne quando fermi per qualche informazioni ti si rivolgono con la canna verso la testa.

 

Attraversiamo il Parco Nazionale di Yangudi che non presenta nessuna attrattiva ed arriviamo a Logiya in tempo per pranzo e per cercare un pezzo di ricambio per il differenziale di una delle jeep che si è rotto. Menù con poche scelte, injera con shiro e tibs (agnello) in un ristorante di cui non son riuscito a trovare un nome. Molto gentile la popolazione dei dintorni: mentre cercavo un bagno, essendo in condizioni terribili quello del ristorante, mi hanno aperto il loro personale, pulito al momento per me. Dimenticavo, la cucina era a fianco del bagno ed era difficile differenziarli, ma ero ai primi giorni di viaggio, osservavo ancora piccolezze che poi avrei tranquillamente dimenticato.

 

Continuiamo per la vicina Semera, capoluogo della regione Afar (dal nome della popolazione nativa della Dancalia, gli unici capaci di vivere tutto l’anno in questo inferno) dove occorre ritirare i permessi, recuperare la guida Afar e accordasi per la scorta armata (che si aggregherà da Efdera, prima di avvicinarci all’ipotetico confine con l’Eritrea). Le procedure durano circa un’ora, poi è tempo di riempire serbatoi e taniche visto che nel tratto di deserto potremmo non trovare rifornimenti ed il chilometraggio non è certo come i consumi (dipendenti da quante volte ci si insabbia e da quante ci si perde).

 

Così il sole cala mentre raggiungiamo Asaita, luogo dimenticato verso il confine con Gibuti (ma senza strade per raggiungerlo, possibile solo via acque del lago Abbe). Ad Asaita arriviamo che è già totalmente buio, e forse è meglio così, altrimenti il paese metterebbe inquietudine a vederlo. A parte tre case colorate, non ne esiste una vera e proprio in mattoni, tutti rami e poco altro. Il nostro hotel non sfugge ai rami, ma ci regalerà qualcosa di fantastico come visione. Le camere sono pochissime e già piene, così ci si adatta nel cortile interno oppure sul terrazzo posteriore, con visione strepitosa delle stelle (ma fatevi montare la zanzariera, gli insetti disturbano se il vento cala, e anche per evitare qualche zanzara malarica che magari non si rammenta che ora siamo nella stagione secca…). C’è anche uno spazio chiuso per la doccia (solo fredda ma nessun problema) ed anche uno con buca come gabinetto.

 

Per festeggiare il fatto che ci fermiamo a cena nel loro ristorante ci preparano un agnello al volo (preso e sgozzato mentre me ne andavo in doccia, visione cruda ma occorre abituarsi) ed alla fine della cena ovvia cerimonia del caffè. Qui viene tostato al momento, pestato col mortaio, messo a bollire in un apposito contenitore in infusione su pietre scaldate dal fuoco sottostante mentre si preparano i popcorn. Il caffè è proprio buono (del resto la pianta del caffè è originaria dell’Etiopia), bisognerebbe berne tre tazzine, e la preparazione richiede almeno 30’ (ma finito di cenare non c’è nulla da fare). Finita questa splendida operazione ce ne andiamo a dormire sotto le stelle nei letti che intanto ci hanno preparato completi di tutto (e così si evita di togliere dallo zaino sacco a pelo e materassino), dopo aver percorso 460 km.

 

5° giorno

 

La sveglia è superba: ibis, falchi, marabù ed altre tipologie di uccelli che non conosco volano a pochi metri, una scimmietta mi guarda interdetta al di sotto della zanzariera, mentre dall’alto della terrazza ammiro un panorama spettacolare, con ogni sorta di animale ad abbeverarsi laggiù sul fiume Awash. Togliersi da qui è dura, e solo dopo una lunga fila di scatti fotogragici è tempo di colazione presso l’hotel, poi visita dei luoghi nei dintorni di Asaita. In jeep andiamo verso il Lago Afambo, ma la strada è interrotta ed occorre continuare a piedi (il sole inizia a farsi sentire molto forte). Quando arriviamo al lago, nel trionfo dei coccodrilli che indispettiti dalla nostra presenza si tolgono dalla posizione a bordo lago per rientrare in acqua, ci sarebbe la possibilità di passare sulla sponda opposta salendo su di una rudimentale zattera (i coccodrilli sarebbero al nostro fianco…), ma un personaggio locale inizia a litigare con la nostra guida impedendoci di attraversare.

 

Allora si costeggia il lago, rimirando svariate tipologie di uccelli (nomi improponibili, pronunciati solo in amharico), gli ovvi coccodrilli e qualche ippopotamo che però rimangono sempre lontano dalla riva. Rientrando ci imbattiamo nella popolazione locale che vive nei dintorni, dove coltiva la terra, con tende come abitazione permanente e armi sempre al seguito. Ma sono tutti felicissimi di incontrarci, anche se solo per scambiare qualche parola occorre sempre passare tramite la guida Afar ed il suo francese. Festa grande in una piantagione di cotone che si estende dalla strada verso il confine con Gibuti, la nostra presenza è modo per ottenere una pausa nel mezzo di un caldo che si fa preoccupante.

 

Rientriamo in paese per visitare il centro ed il mercato che si estende lungo le vie, mercato che a parte un po’ di frutta non offre nulla di particolarmente interessante, solo cose di stretta sopravvivenza per la popolazione. Così rientriamo in hotel per un veloce pasto e per una visione sempre spettacolare dalla terrazza rimirando i marabù che distendendo le infinite ali si asciugano al sole, per poi andare verso un villaggio Afar lungo la strada che riporta sulla statale in direzione Gibuti. Le tende degli Afar sorgono nel mezzo di una pietraia che sulle prime non sembrerebbe vivibile, ma per loro è ordinaria amministrazione. Qui non c’è nulla, per recuperare acqua le donne si fanno un lungo cammino verso le paludi del fiume Awash, mettendola dentro alle pelli di pecora cucite sulle zampe e sul collo ed usate come otri.

 

Nel villaggio solo donne, gli uomini dovrebbero essere in paese a vendere i pochi prodotti che realizzano, ma è probabile che questi che vivono non troppo lontano da Asaita passino il tempo a bere nei bar o lungo le strade. Nel villaggio è in fase di organizzazione un matrimonio per il giorno successivo, i parenti dello sposo arrivano con le vettovaglie, ci chiedono di partecipare ma il nostro programma prevede la partenza presto per il giorno seguente e non saremo della compagnia. Se questo è il primo assaggio di vita Afar (una popolazione considerata ancora particolarmente ostica, capace di sopravvivere in luoghi estremi quando non impossibili, in una terra che non si sa nemmeno a chi appartenga), inizio già a farmi un idea di cosa incontreremo in seguito, anche se pensare a viverci quotidianamente mi ritorna come qualcosa di non concepibile. E qui siamo ancora in contatto con la civiltà, con le provviste, l’acqua ed eventualmente medicine e dottori. Cena al ristorante dell’hotel col solito rito del caffè finale e col solito capretto sacrificato per noi, per finire sulla terrazza a dormire sotto le stelle ed i tanti uccelli vocianti.

 

Sorriso di una ragazza Afar dagli incisivi appuntiti

Sorriso di una ragazza Afar dagli incisivi appuntiti

 

6° giorno

 

Impossibile abituarsi ad un risveglio incredibile come quello di Asaita, ed anche oggi una buona mezz'ora va dedicata al panorama sottostante e sovrastante. Dopo colazione si parte immediatamente, ci aspettano molti chilometri. Lungo la strada incontriamo dromedari e genti al solito armate di tutto punto, mentre rimiriamo un villaggio tutto costruito di rami, compreso un altissimo minareto. Lungo la strada, come d'abitudine, camion con guasti meccanici ed incidentati, quando, nel bel mezzo del nulla, si apre una strada asfaltata in direzione nord, cuore della Dancalia. Al km 130 c’è un luogo di ristoro, poche scelte, injera e shiro ma anche bibite fresche, poi dopo poco la strada asfaltata termina (comunque son stati 170 km) per lasciar spazio a una pista che più va avanti più peggiora. Prima di arrivare al lago Afera, ad una delle jeep cedono sospensione e balestra. La riparazione è impossibile al volo, così ci stringiamo per andare tutti nel villaggio di Afdera dove arriviamo col buio, potendoci godere la bella visione del lago sovrastato dal suo imponente vulcano (1.200 metri) solo in minima parte.

 

Ad Afdera arrivano anche i camion per il trasporto del sale, oltre non è possibile spingersi per loro e la presenza dei camionisti ha sviluppato qualche struttura di ospitalità, ma ben presto ci accorgiamo che sono fatte ad uso e consumo di prostitute locali che cercano di rendere meno dura la vita dei camionisti. I loculi dove si dovrebbe passare la nottata sono in condizioni impossibili, allora meglio montare le tende nello spazio antistante i loculi. I servizi igenici sono una vasca piena d’acqua utilizzabile con un secchio per lavarsi e una buca già otturata dai bisogni di mille persone. Quindi, come tutti fanno qui, per il bagno basta attendere il calare della notte e cercarsi il proprio angolo preferito. Almeno aver trovato un po’ d’acqua per una doccia volante all’aperto è qualcosa di positivo, vista la temperatura prossima ai 40° e l’impossibilità di trovare un riparo che non sia il tetto della jeep. Ci troviamo a circa 100 metri sotto al livello del mare, e questa situazione condiziona il clima in maniera molto forte.

 

Per cena largo alla cucina da campo, al seguito abbiamo anche un cuoco, ma serve soprattutto per preparare il cibo agli autisti ed alle guide (in seguito anche alla scorta), vista la poca dimestichezza con cibi in busta e simili, anche se iniziamo ad apprezzare le sue verdure condite con berberè ed altre spezie di qui. Nel villaggio è operativa una pseudo discoteca che fa rumore a lungo, meglio far serata al bar antistante lo spazio del nostro accampamento, provvisto di bibite fresche (reperibile quello che i camion han portato in giornata, magari solo succo di mango…). Sapevamo di entrare nell’inferno, e a conti fatti le condizioni sono ancora sopportabili, anche se occorre adattarsi in pochissimo tempo alla situazione, fortunatamente la scorta d’acqua rende tutto più semplice.

 

continua...

 

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