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8 – Tarantola sfrattata
È l’ultimo giorno di giungla e quindi oggi si andrà un po’ a caccia, per modo di dire. In realtà andare veramente a caccia nella foresta amazzonica con dei turisti impacciati, rumorosi e fotografi, credo sia impresa al limite dell’umano. Prima di partire si “testano” le capacità venatorie. Davanti alla maloca si fanno alcuni tiri di prova con arco e frecce, cercando di colpire una palma. Non me la cavo neanche malissimo: quei pochi tentativi di tiro con l’arco fatti alle feste medievali di Palazzuolo sul Senio a qualcosa sono servite. Poi ci si inoltra nel fitto della vegetazione, stavolta con gli stivali di gomma che arrivano al ginocchio, vista la quantità d’acqua scesa durante la notte. Infatti, la foresta è decisamente “umida”, pure più del solito. Vi sono anche alcune megapozzanghere che non c’erano i giorni precedenti. Dennis, a piedi nudi, ne attraversa una, poi tocca a me: in questa “spedizione” Hector mi sta alle spalle. Non ho idea di quanto sia profonda l’acqua, metto dapprima il piede destro che affonda di una 40ina di centimetri. Parzialmente rassicurato metto in acqua anche il secondo. Vado per fare il terzo passo quando qualcosa mi trattiene il piede destro. Un anaconda? Le sabbie mobili? Niente di tutto questo, è un banalissimo effetto ventosa dato dallo stivale che poggia sul fondo fangoso. Sarà anche banalissimo ma non me lo aspetto, ho già il corpo proteso in avanti perché pensavo di proseguire la marcia, perdo l’equilibrio e cado in ginocchio, in mezzo alla pozzanghera. Sto per cadere anche col busto ma il pensiero delle due macchine fotografiche al collo mi dà la forza per aggrapparmi a qualche sottile ramoscello ed evitare il disastro. Arriva anche Hector a sostenermi. Mi rialzo con i pantaloni fradici fino all’inguine, emblema della mia inadeguatezza. Ovviamente Hector se la ride e mi scatta ripetute foto: sono sempre le situazioni apparentemente più brutte quelle che poi, in seguito, si raccontano con più divertimento. Mi tolgo gli stivali per svuotarli dell’acqua e mi do’ una sommaria ripulita con l’acqua della stessa pozzanghera, per fortuna non ci sono sanguisughe.
Procedendo si sente di nuovo l’acuto gracidio di una raganella. Dennis la individua e la cattura: è nera, con striature giallo/verdi che corrono sui fianchi dagli occhi all’attaccatura delle zampe, l’addome è nero e sulla schiena puntinata. La fotografiamo più volte prima di restituirla alla giungla. Più avanti Dennis vede una tana con un’entrata delle dimensioni di una pallina da tennis. È sicuramente la casa di una tarantola, il ragno più grosso del mondo, ritenuto, ingiustamente, anche uno dei più pericolosi. Non morde e l’incontro con questo gigante della specie può essere doloroso per via dei suoi peli urticanti ma mai letale, non così diverso dalla puntura di una vespa. Hector prende un ramoscello e lo sfrega nell’ingresso della tana, la tarantola lo segue e si fa vedere per un paio di secondi, prima di tornare a nascondersi. Seguono altri tentativi, infruttuosi, di farla uscire. Allora Hector cattura una farfalla, la infilza nella punta dello stecchetto e la offre al ragno, che la prende senza mostrarsi. Dennis e Hector cominciano pian piano a sventrare la sua tana al punto che io, un paio di volte, dico di lasciar perdere, che anche se non l’ho fotografata l’ho comunque vista. Troppo tardi, ormai sono entrati in “modalità cacciatore” e non mi ascoltano più, dicendo solo “ormai l’abbiamo presa, è questione di minuti”. Alla fine ci riescono. Hector la cattura tenendola per i lati dell’addome per evitare i contatti coi dolorosi peli che ha nella parte finale dello stesso. Si è aggrappata ad una radice con le zampe anteriori e non la molla, come un naufrago disperatamente attaccato ad un relitto. A suo modo è stupenda, e mi piange il cuore a sapere che per soddisfare la mia curiosità le è stata distrutta la casa. Scatto qualche foto e poi dico di lasciarla andare. Lei si rintana subito in quello che resta della sua tana, che dovrà ricostruirsi ex novo. Rientriamo alla maloca, dove finalmente posso togliermi i pantaloni fradici, che vengono messi su un filo ad asciugare. Al loro posto non posso che mettermi i bermuda comprati ad Iquitos, unico altro indumento in mio possesso che possa sostituirli.
La tarantola, tenacemente aggrappata ad una radice - Archivio Fotografico Pianeta Gaia
Più tardi faccio un giro da solo verso la chacra e in seguito facciamo una capatina dove c’è un ombroso laghetto. Poi c’è la cerimonia del nu-nu. Si utilizza la polvere ottenuta pestando il tabacco essiccato e la cenere della corteccia preparate il giorno precedente, sapientemente mescolate da un adulto esperto fino ad ottenere una consistenza pari a quella della farina. Poi si prende una canna di bambù, circa un metro, e con quella la si soffia nelle narici del soggetto. È Dunu a soffiare ed è Dennis a prendere il nu-nu. Otto volte, quattro per narice e quando l’operazione è terminata le sue guancie hanno preso una colorazione verdastra, data dalle particelle di polvere che non sono andate a segno. Anche in questo caso la reazione è immediata. Il volto di Dennis è una smorfia di dolore ad ogni soffiata. Si dice che sia come un’esplosione: naso e occhi bruciano, si annebbia la vista e il polso batte all’impazzata. Poi, veloce come è arrivato, il dolore sparisce e si entra in una fase di stanchezza e ci si siede o sdraia. Durante questo momento si va come in trance: si sognano gli animali, dove trovarli e come cacciarli e si spiega loro che li si caccia per motivi di sostentamento. Poi basterà andare nei luoghi sognati e cacciare gli animali apparsi in visione. Secondo i Matsés anche le prede hanno le stesse visioni, quindi sanno cosa li aspetta e non si spaventano. Sembra una procedura per chiedere il permesso alle prede di poterle catturare, e vivere pertanto in armonia nella Natura. Anche di questa procedura non si deve abusare perché la Natura, che ha voluto condividere i suoi segreti con i Matsés facendogli conoscere il nu-nu, non vuole che gli uomini siano troppo avvantaggiati rispetto agli animali. Come quando, nel periodo delle alluvioni, si piazzano le trappole per i tapiri. Si può catturarne massimo tre, non di più, e se dopo averne catturati tre ci sono altre trappole ancora in funzione, bisogna mandare qualcuno a disattivarle, perché se ne venissero uccisi degli altri gli spiriti della foresta si arrabbierebbero e direbbero ai tapiri di non andare più in quella zona della foresta. Il nu-nu, come anche il sapo, vengono utilizzati anche solo per “vedere nel futuro o a distanza”: lo si assume per sapere se e quando una trappola, anche se posizionata a decine di chilometri di distanza, ha fatto il suo dovere. Questa sostanza può essere assunta anche per motivi diversi dalla caccia, come ad esempio per recuperare da un periodo di stanchezza oppure per stimolare visioni. La vera differenza rispetto alla cerimonia del sapo sta nel fatto che nel soffiare il nu-nu è come se venisse trasmessa, assieme all’aria dei polmoni, anche parte della conoscenza, della forza e della saggezza di chi soffia. Per questo a soffiare è sempre un adulto esperto verso un giovane e non viceversa, sempre uomini.
È l’ultima sera presso la maloca e ne approfitto per le ultime domande. È il momento in cui i mosquititos sono più fastidiosi e sono in pantaloni corti: mi avvolgo le gambe nell’asciugamano, ma conta poco. Avevo tenuto in serbo quelle che potevano essere le più importanti ma le risposte, da un certo punto di vista un po’ deludenti, in realtà qualcosa la spiegano. Chiedo loro come credessero fosse stato creato l’universo o se pensassero che esistesse un Dio. Nulla. Semplicemente non si sono mai posti il problema. Credevano che la Terra fosse una madre benevola, che li ha forniti della giungla e delle cose che vi sono in essa, piante e animali, per il loro sostentamento. Alcune di queste cose hanno uno spirito, uno degli spiriti più potenti è quello dei Matsés. Adesso invece, dopo essere stati per anni indottrinati dai missionari cristiani, dicono che ora sanno che esiste un Dio che ha creato l’universo ma sotto sotto, si capisce che anche prima, quando nessuno glie lo aveva spiegato, vivevano bene lo stesso. Comunque il loro cristianesimo è, come succede spesso, assai sincretico e le varie usanze rituali e superstizioni legate al mondo della foresta sono ancora piuttosto vive. Anche il sesso pare non aver mai risentito di sovrastrutture: nessun preliminare e atti meramente riproduttivi, di norma praticati quando la numerosa prole è fuori per fare i lavori.
I Matsés si dividono in due gruppi: i tsasibo (cioè i giaguari, che sono cacciatori) e i macubo (cioè i vermi, che sono coltivatori). L’appartenenza ad uno di questi gruppi è ereditaria, in via patrilineare, quindi un figlio di un cacciatore sarà a sua volte un cacciatore, e determina la possibilità di poter effettuare determinati compiti, diversi per ciascun gruppo. Ad esempio solo un appartenente al gruppo dei coltivatori può coltivare mais oppure togliere le larve che infestano le coltivazioni perché se a farlo fosse uno tsasibo lo spirito dell’animale che rappresenta si offenderebbe e causerebbe la perdita del raccolto. Parimenti i cacciatori, che quando andavano a caccia si dipingevano delle macchie rosse sul corpo ad imitazione di quelle del giaguaro, erano convinti che un giaguaro non li avrebbe attaccati perché avrebbe riconosciuto in loro qualcuno appartenente alla stessa stirpe. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare questa divisione non crea conflitti, anzi spinge persone di gruppi diversi a collaborare, ognuno occupandosi delle cose pertinenti al suo gruppo. Anche i tatuaggi si differenziavano in base al gruppo: i segni verticali sul volto erano più lunghi e fitti nei coltivatori. Tradizionalmente i matrimoni più comuni erano con i figli dello zio materno, che apparteneva quindi al gruppo opposto e alla morte di un Matsés, al suo funerale venivano intonati canti diversi a seconda del gruppo di appartenenza che magnificavano le sue dotti di cacciatore o la bravura nel coltivare. Dunu - che in lingua Matsés significa “serpente” -, e quindi Armando, e a seguire Dennis, appartengono al gruppo dei tsasibo. È l’ultima sera, ormai non c’è più quel po’ di ritrosia iniziale, Dunu e Canë sono abbastanza sciolti e riesco perfino a registrare l’anziano mentre canta una struggente nenia. “Cos’è?” gli chiedo. “Una ninna nanna?”. Macché, si tratta di un canto che parla di sangue e teste spaccate, propiziatorio prima di un attacco ad un villaggio nemico. Che tenero vecchietto.
La cerimonia del nu-nu - Archivio Fotografico Pianeta Gaia
9 – Fuga dall’Eden
Oggi ce ne andiamo da questa sistemazione a suo modo idilliaca. La sveglia è di buon ora ma non mi pesa perché, andando a letto così presto, è normale svegliarsi all’alba, anche se a farlo non ci fossero i rumorosi strilli del tatatao, un rapace il cui nome è un’onomatopea del rauco verso che lancia. Foto di gruppo davanti alla maloca, saluti agli adorabili nonni, poi si carica tutta l’attrezzatura e si ritorna a Buen Perù. Giunti al villaggio, bisogna preparare la barca, montandovi il fuoribordo. Nel frattempo attendiamo nella casa di Armando utilizzata anche all’andata. Una bimba ha due carpinteros, due uccellini neri col capo giallo e rosso che cantano in continuazione, aggrappati alla maglietta: sono state loro tagliate la punta delle ali, non posso scappare, e quindi si tengono ben stretti dove li appoggiano. Gli animali domestici qui li prendono direttamente dalla foresta. Mentre ci viene servito un chapo caldo – continua a sembrarmi strano bere qualcosa di caldo a queste temperature - giunge un personaggio di cui non ricordo nome e grado di parentela con delle lance, che vuole vendere. Hector mi chiede se sono interessato: non sono brutte ma portarmi dietro un bastone di un paio di metri per il prosieguo del viaggio vorrei evitarlo. Mi dice che difficilmente ne troverò altre di quella fattura in seguito e che, se ne prendo una, lui prende le altre cosi da fare un “pacco unico” e una volta in Italia posso farle avere a Serenella, appassionata di questi manufatti. Vabbè, facciamo anche questa. Scelgo quella più corta, ricavata da un unico pezzo di legno, dalla forma molto elegante e specifica per la caccia ai pecari, e mi costa appena 10 euro, con Hector che strabuzza gli occhi lamentandosi che a lui, in passato, le avevano fatte pagare di più. Le altre due lance, più lunghe, con la punta in bambù e con alcune decorazioni, le porterò in Italia con me. Inizia il rientro via barca, senza acqua perché la tanica, per poterla trasportare, è stata svuotata. Per questo ci portiamo dietro parecchia frutta fresca, e le succose papaye saranno un’apprezzatissima fonte alternativa di liquidi. Partiamo.
Il fiume pare abbastanza ingrossato rispetto all’andata. Per tutto il viaggio ci martella un sole cocente ma indosso la camicia con le maniche lunghe e mi salvo. Stavolta, invece di sedermi sull’asse, mi è stata riservata una seggiolina bassa di metallo con lo schienale, lasciata da Paola, un'altra viaggiatrice italiana che mi ha preceduto, che mi consente un trasferimento decisamente più comodo. Facciamo tappa in uno dei villaggi sul fiume, perché Hector vuole salutare Jorge, il capo villaggio. Costui ha un paio di frecce e ce le regala: una per me e l’altra per Serenella, tanto ormai fatto trenta facciamo trentuno. Seguendo la corrente la differenza si sente e impieghiamo circa 6 ore, un paio in meno dell’andata, arrivando nel primo pomeriggio. All’arrivo chiediamo ai poliziotti se possiamo “registrare” il nostro ritorno, ma la risposta è un placido: “Venga domani”. Se fossi fortunato potrei anche trovare il volo pronto a partire, guadagnando un giorno rispetto al programma. Potrebbe essercene uno in serata, ci dice il Tecnico, cioè il militare addetto a valutare le condizioni della pista di Angamos, la quantità di pozzanghere e a dare il benestare all’atterraggio. Ci dicono di non preoccuparci, di andare pure a casa che, se il volo c’è, avvisano tramite altoparlante. In effetti qua funziona così, l’altoparlante lo usano un po’ per tutto: per avvisare se e quando arriva un volo, per dire a qualcuno di andare alla cabina telefonica che c’è una chiamata per lui, per rendere noto che è finita la benzina. Con l’aeroporto, ma pur sempre un villaggio. Purtroppo l’agognato avviso non viene pronunciato, spero solo che il meteo non cominci a fare le bizze. Avvisano invece che non c’è benzina, e quindi non funzionerà l’illuminazione pubblica, uniche fonti di luce le candele o le lanterne ad olio delle case private, a parte qualche negozio che dispone di un rumoroso generatore elettrico. In ogni caso, la mancanza di benzina - che peraltro qui costa il quadruplo che a Iquitos! - mi avrebbe reso impossibile tentare di raggiungere Atalaia do Norte via barca, come avevo ipotizzato in sede di preparazione dell’itinerario.
Il tatuaggio facciale di Dunu, che simboleggia i baffi del giaguaro - Archivio Fotografico Pianeta Gaia
Non rimane che rilassarsi, adeguandosi al tranquillo stile di vita di Angamos. Un vicino di Dennis ha catturato un cinghiale selvatico e mi invita a fotografarlo visibilmente soddisfatto, ancora intrappolato nell’improvvisato “zaino” di fibre vegetali costruito per trasportarlo. Quando l’afa comincia a stemperarsi, la maggioranza della gente si ritrova in “centro” per giocare a calcio (gli uomini) o a pallavolo (le donne). Tutte le sere, e sono quasi tutti adulti, non bambini, quelli che si turnano nel campetto in cemento con tanto di piccola ma frequentata tribuna coperta. Mi guardo una partitella anch’io e a partita finita, uno dei vincitori passa a riscuotere delle monetine dai perdenti e, con mia sorpresa, pure dal pubblico. A parte quelli militari, qui di posti di lavoro fissi non ce ne sono. I più benestanti aprono una bottega, gli altri cacciano e pescano, sperando di trovare dei lavoretti di tanto in tanto. Uno di questi lavoretti lo fa anche Dennis, che sulla porta di casa ha affisso un pezzo di carta con degli orari di ricevimento. È l’addetto alla registracion, in pratica una specie di anagrafe, per i Matsés che vogliono mettersi in regola. Peccato però che il sindaco, un mestizo, è da mesi che non gli versa quanto gli spetta. Le pareti delle case sono piene di scritte: esortazioni a votare questo o quello. I Matsés, che costituiscono ormai la maggioranza degli abitanti di Angamos, stavolta hanno votato compatti per il loro candidato e il sindaco che si insedierà a breve è uno dei loro.
continua...