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5 – Nella maloca
Oggi ci trasferiamo da Buen Perù Nuevo presso la maloca (casa tradizionale) che Dunu si è costruita ad alcuni chilometri dal villaggio, verso l’interno, presso la quale vivremo per alcuni giorni. “Non gli piace vivere nel villaggio – mi dice Hector –, troppo rumore”. Prima di partire - sono sempre un po’ lente le partenze - faccio un giro per il villaggio: diverse decine di case (palafitte come quelle di Angamos), un sentiero centrale in cemento, una scuola con un campo sportivo, una scala in cemento che porta al fiume, dove le donne si recano a lavare i panni. Una volta che i ragazzi sono entrati a scuola, non si sente un rumore, tranne qualcuno che ogni tanto spacca della legna con un’ascia. Non c’è un singolo mezzo a motore nel villaggio, a parte le barche di cui, una volta ancorate, il motore viene portato a casa e viene tirato fuori solo per scendere a valle; di certo, con quello che costa la benzina da queste parti, per andare a pesca basta la pagaia. Deve avere le orecchie parecchio delicate Dunu.
Che gli abitanti sono indios lo si capisce dai tratti somatici, non dall’abbigliamento. Solo una vecchia ha i tatuaggi tradizionali Matsés: una linea orizzontale, sulla quale vi sono brevi tratti verticali, che dalle orecchie giunge fino alle labbra, circumnavigandole. Le chiedo se posso scattarle una foto ma vuole essere pagata. Passo, non voglio lasciare dietro di me insegnamenti sbagliati. Nel dolce far niente che pare la vera attività quotidiana di tutti, resto a sedere in mezzo agli indios, cercando di interagire con qualche frase in castigliano. Riconosco una delle bimbe che ieri sera non volevano mai smettere di farsi fotografare, colgo la palla al balzo, le faccio qualche scatto e glie lo mostro. Ride, lo sapevo. Piano piano il clima si distende, pare che farsi fotografare non sia poi così insopportabile e una coppia marito e moglie, fino a quel momento abbastanza sulla difensiva, mi chiede se posso far loro una foto. Poi è ora di andare. Assoldato un giovane come portatore, partiamo allontanandoci dal fiume e in una quarantina di minuti giungiamo alla maloca di Dunu, poco dopo aver attraversato una chacra, di sua proprietà, piuttosto vasta. Dunu, che avrà circa 65 anni - non esistevano i certificati di nascita all’epoca - non ci accoglie: è da un paio di giorni che non è in forma e si sta riposando nell’amaca. So che non è un buon segno. Gli indios sono piuttosto superstiziosi e spesso incolpano delle malattie le novità, e io decisamente sono una novità. Ricordo di aver letto di un popolo amazzonico di queste parti che aveva trattenuto un bianco (il quale non si era reso conto del pericolo che stava correndo), per ucciderlo, visto che poco dopo il suo arrivo il fratello del capo del villaggio era morto. Dunu pare avere solo mal di stomaco. Seguirò il decorso della sua malattia con interessata attenzione.
Dunu ha due mogli, Canë e Graciela. Canë è più anziana di lui, avrà una settantina d’anni e non solo ha il tatuaggio tipico dei Matsés, come del resto Dunu che l’ha pure sul petto, ma ha anche i famosi “baffi”, cioè degli stecchi ricavati dalle foglie di una palma conficcati nel naso, cinque per lato, per assomigliare ad un giaguaro, l’animale principe di queste terre al quale i Matsés, popolo di abili cacciatori, non può che riferirsi naturalmente. È per via di questo ornamento che a volte i Matsés vengono chiamati la “tribù felina”. Una volta anche Canë portava un ulteriore elemento decorativo, un lungo bacchetto infilato sotto al labbro inferiore, che stava a simboleggiare le prede che pendevano dalla bocca del maculato predatore. Ora non più, come non si vedono nemmeno più uomini portare sul labbro superiore le stesse stecche che le ultime donne anziane ancora portano sul naso. I tatuaggi, che rappresentano il giaguaro, venivano fatti da adolescenti, prima di trovare moglie o marito. Il vero motivo per il quale venivano eseguiti è estetico, anche se poteva venire utile per riconoscersi fra Matsés, cosa utile in un attacco. Il tatuaggio sul petto, come quello di Dunu, veniva fatto solo ai guerrieri. Il figlio adolescente di Dunu, avrà 12/13 anni, non ha voluto il tatuaggio. Nella capanna con Dunu adesso vive anche sua nipote Besol, una bella ragazzina che avrà una decina d’anni. Quando avrà le prime mestruazioni andrà a vivere nel villaggio.
In occasioni speciali si dipingevano il volto e sul petto corpo con l’achiote, una tinta rosso brillante ricavata dai baccelli di urucu: ritenevano che le strisce attorno agli occhi servissero a rendere la vista più acuta e la fronte rossa donava l’invisibilità. Gli uomini portavano in testa delle fasce, anch’esse dipinte con l’achiote, con simboli diversi a seconda del clan a cui appartenevano, e in vita delle cinture dello stesso materiale che reggevano il pene, come facevano un tempo tutti i popoli indigeni amazzonici. Le fasce in testa le portano ancora, ogni tanto, mentre dei più pratici pantaloncini, quando non proprio delle mutande di cotone, hanno da tempo definitivamente sostituito l’antico underwear. Graciela, che pare avere una trentina di anni in meno, non ha nemmeno i tatuaggi e non è più distinguibile da una non Matsés.
Canë porta legna alla capanna - Archivio Fotografico Pianeta Gaia
La maloca di Dunu, a quanto apprendo nelle lunghe chiacchierate serali, è una delle ultime due in tutto il Perù, l’unica altra esistente pare essere quella collettiva di Puerto Alegre, una comunità Matsés lungo il fiume Javarì, a circa 3 giorni di navigazione più a monte di Angamos. In Brasile pare esserne rimasta solo una, collettiva, sul fiume Lobo. Questa accoglie solamente Dunu e le sue due mogli e relativa prole. Quella di Puerto Alegre è, come da tradizione, collettiva, cioè costruita per ospitare più famiglie. Quando le tradizioni Matsés erano ancora vive, tutto il villaggio abitava sotto lo stesso tetto: le malocas potevano arrivare ad essere lunghe anche centinaia di metri, e ogni moglie - perché gli uomini potevano averne più di una - aveva il suo quene, un settore della maloca delimitato da stuoie di foglie di palma intrecciate, all’interno del quale teneva i propri figli e il proprio fuoco. Solitamente l’uomo dorme nel quene della moglie più giovane, e in una maloca collettiva, il capo alloggia nel quene più vicino all’ingresso. Alte 6 o 7 metri, di forma esagonale - i lati obliqui sono quelli nei lati delle entrate - hanno il tetto fatto di foglie, che vanno sostituite circa ogni tre anni, e un corridoio centrale libero che corre tra le due basse porte, alte appena 1,25 metri. Sono sempre posizionate alle due estremità della struttura, retaggio di un’epoca in cui bisognava poter fuggire in fretta e furia, in caso di attacco nemico, nella direzione opposta. Nessuna finestra, e il fumo dei fuochi impregna tutto. Serve anche per tenere lontani gli insetti: la prima volta che entro nella maloca disturba un po’, poi col passare dei giorni mi abituo al punto che non me ne accorgo nemmeno più. Vicino all’entrata che dà verso il villaggio c’è il nantan, l’area addetta all’accoglimento degli ospiti: alcuni tronchi sono fissati a terra a mo’ di panche sui lati del “corridoio” e vi siedono gli uomini in visita, ai quali vengono sempre offerti cibo e bevande. Le donne di solito siedono sul pavimento. Oggi le malocas non le costruisce più nessuno: quando un uomo prende moglie si costruisce la sua palafitta individuale “moderna”, di norma di fianco a quelle dei suoi parenti più stretti, anche se prima di portare con sé la moglie, di norma passa qualche mese nella casa dei genitori della donna.
Durante il giorno dovremmo andare nella giungla con Dunu che ci fa da guida ma, visto il suo stato di salute, il suo posto lo prende il nipote Dennis. Solo che per andare nella foresta bisogna attraversare il fiumiciattolo presso il quale è costruita la maloca, che serve da bagno e da fonte d’acqua. Per andare in bagno si scende lungo il tronco abbattuto di una palma e anche se ho gli scarponi da trekking scivolo. Dennis prende il machete e vi intaglia subito qualche tacca. Prevedo che servirsi dell’acqua corrente sarà piuttosto pericoloso, a maggior ragione essendo privo dei sandali rimasti in valigia e dotato solo di un paio di infradito comprate all’ultimo momento. Per attraversare il fiumiciattolo è stato poggiato un tronco tra una riva e l’altra e io, che come detto subito non sono un cuor di leone, dimostro buona volontà e mi avvio a percorrerlo, ma quando mi trovo a circa 4 metri d’altezza col vuoto intorno mi blocco. Quante volte ho giocato, anche da adulto, a camminare in equilibrio sui bordi di un’aiuola, molto più sottile, senza problemi? Il tronco è piuttosto grandicello, una mia scarpa ci sta comoda, eppure la mia testa dice no. Andiamo a visitare un pezzo di giungla sullo stesso lato del fiumiciattolo.
Poco dopo ci imbattiamo in una gigantesca lupuna (ceiba pentandra), l’albero più grande della foresta amazzonica, dotato di enormi radici lamellari. Questa le ha talmente alte che, nelle sue pieghe, si formano come delle piccole stanze e difatti Dennis mi dice che, quando si va nella foresta per giorni e si dorme fuori, vengono sfruttate come riparo per la notte. Vi sono formiche grandi almeno il doppio delle nostre ma mi dicono che ve sono altre grandi il doppio di queste, il cui morso è proverbialmente doloroso. Muoversi nella giungla fitta comporta l’utilizzo del machete e grande attenzione a dove ci si appoggia. La prima cosa che mi viene insegnata è di guardare a cosa ci si aggrappa, tra animali e piante poco amichevoli si corre il rischio di avere brutte sorprese. La seconda la imparo da solo: le cose non sempre sono quello che sembrano. Vi sono giganteschi tronchi che nel camminarci sopra letteralmente si sbriciolano, ormai completamente macerati da umidità e insetti, e insignificanti fili vegetali che pensi di spezzare con facilità che offrono più resistenza di un filo d’acciaio, rischiando di farti inciampare. Poi Dennis con un colpo secco di machete taglia di netto una grossa liana, dalla quale sgocciola copiosa quella che pare acqua. Mi invita a berla, prima che si finisca: sembra acqua fresca di fonte, buonissima. Rientriamo alla maloca mentre Canë attraversa il ponticello scalza e con un mucchio di legna sulle spalle. Mi sento inadeguato.
È mezzogiorno circa e il sole picchia come può fare così vicino all’Equatore, a occhio e croce al sole ci saranno 35°. Aggiungici un’umidità che in una foresta pluviale si assesta normalmente tra il 75/90% e hai il quadro di come anche solo a stare fermi si sgoccioli di sudore. L’unico sollievo è stare un po’ al fresco della maloca. Per uno come me appassionato di fotografia, la foresta pluviale non è un luogo favorevole: nel fitto della giungla la luce è sempre poca e costringe ad impostare gli ISO almeno sui 400; come trovi uno spiazzo il sole verticale dell’Equatore spara ombre dure sui volti; non parliamo poi dell’interno della maloca, dove solo col flash si può ottenere qualche scatto leggibile. Ma c’è un “luogo magico” che mi salva, e dove, di giorno in giorno, riesco a produrre alcuni dei miei scatti migliori: la soglia della porta. Mi siedo a fianco di uno degli ingressi, proprio dove donne e bambini si sono messi per fare un po’ di pulizia personale. Una mamma, credo una dei dieci figli di Dunu in visita dal villaggio, toglie qualcosa dai capelli della sua bambina e poi se lo mette in bocca. Pidocchi? La situazione è calma, la luce particolare, il mio 50mm f/1.4 è quanto di più luminoso posso disporre. Scatto tante volte, ho tempo di sbagliare e correggere l’esposizione e il fuoco e così anche i miei soggetti si tranquillizzano. Piano piano farsi fare una fotografia perde quel senso di usurpamento aggressivo e anche Canë, la moglie di Dunu che oltre ai tatuaggi ha i fotogenici “baffi” tradizionali, inizialmente piuttosto scocciata nel vedere il mio lungo obiettivo puntarla in continuazione, si lascia riprendere volentieri, addirittura chiamando le nipotine a sé come per fare una foto da mettere nell’album di famiglia. Scattare le foto in mezz’ora e poi ripartire per un altro villaggio, come ho fatto in Africa e Asia, sicuramente non ti dà la possibilità di stabilire un minimo di empatia. Questo soggiorno prolungato presso i Matsés mi piace anche per questo.
La birichina Karen - Archivio Fotografico Pianeta Gaia
Quando l’afa cala un po’, Dennis e Canë escono per andare a procurarsi le radici del barbasco e delle foglie di awaska che verranno utilizzate domani per un tipo di pesca particolare. Poi, in vista della notte che passeremo dentro la maloca, vengono raccolte alcune grandi foglie di palma che, opportunamente separate in due e intrecciate, producono, nel giro di un quarto d’ora, due grandi stuoie sulle quali poggiare i nostri materassini. Poi con altre foglie di palma intrecciate vengono velocemente rinforzate le porte che chiudono gli ingressi di notte. È stupefacente vedere come la foresta amazzonica sia, per chi la conosce, come un economico e fornitissimo emporio, aperto 24 ore su 24. Hector mi dice che porta turisti in questa maloca solo dal 2010 - prima si fermava in un villaggio più vicino, ma ora essendo morto l’anziano che visitava, le mogli sono andate a vivere in una casa “moderna” - e, considerato che altri hanno provato a portare viaggiatori alla sua maloca ma sono stati respinti, facendo una botta di conti, scopro di essere il 16imo occidentale ad entrare in contatto con Dunu e la sua famiglia. Posate le stuoie appena prodotte nella parte libera della maloca, piazziamo i materassini e le zanzariere nell’area libera. È un privilegio riservato a pochi: sono appena il secondo viaggiatore a dormire dentro la maloca, perché a parte un giornalista vietnamita, tutti gli altri venuti fino a qua erano in gruppi più o meno numerosi, non c’era modo di ospitarli dentro alla maloca e campeggiavano all’esterno. Hector si diverte nel raccontarmi il primo incontro di Dunu con un bianco. Era il 2010 e Hector, insieme ad Armando, aveva portato un gruppo di olandesi fino alla maloca. Non essendoci telefoni, non era stato possibile avvisare Dunu, che non si aspettava questa visita. Quando vide uno spilungone biondo di due metri avvicinarsi alla sua maloca la sua reazione fu quella di uscire dalla porta opposta e caricare l’arco con una freccia, mentre Canë aveva già raccolto lo stretto necessario per fuggire nella giungla. Solo dopo aver visto che c’era anche suo figlio Armando, che col suo metro e mezzo circa sembrava un bambino in mezzo agli stangoni dei Paesi Bassi, abbassò l’arma.
Si cena con noodles in un brodino caldo - i chifa, ristoranti cinesi, sono sempre molto diffusi e apprezzati in Perù - e si beve acqua all’arancia: l’acqua è quella del fiume che viene filtrata e poi messa in una tanica con le pastiglie per potabilizzarla. Poi, per rendere il sapore più affrontabile, vi si mettono delle bustine al sapore di arancia. Mai avuto problemi di stomaco per tutta la permanenza e quindi direi che il metodo funziona. Poi, ci si sposta nel nantan e si accendono alcune candele, e dopo aver dato una porzione del caldo pasto anche a Dunu e famiglia, assai gradito, comincia la prima di quelle serate che per me saranno uno dei ricordi più belli del viaggio. Dunu non è abbastanza in forma per portarci in giro per la foresta ma ha ancora la memoria buona e tutte le sere, dopo cena, per un’oretta o più, risponde alle mie (e nostre) domande sulla sua vita d’altri tempi. Manco fossi un Levi-Strauss dei poveri, mi metto lì col blocchetto degli appunti* per cercare di fissare in qualche modo la fiumana di parole scandite dalla flebile voce dell’anziano Matsés e, nel buio della maloca, con i soli volti illuminati dalla fioca luce delle candele, mi sembra di essere trasportato in un’altra dimensione. Sono in estasi.
I Matsés sono sempre stati un popolo bellicoso ed erano famigerati per assalire i villaggi nemici, preferibilmente all’alba. Poi, con l’avvento dei bianchi a caccia di schiavi da sfruttare per la raccolta del caucciù - la cosiddetta Guerra del Caucciù vide il suo picco negli anni ’20 e ’30 - sapersi difendere divenne necessario per tutelare la propria gente e le terre dalle quali traevano sostentamento. Quando assalivano i villaggi nemici, col volto dipinto per assomigliare ai giaguari, generalmente uccidevano tutti gli uomini, prendevano le donne e i bambini e li portavano al loro villaggio, dove divenivano parte integrante della comunità Matsés, senza nessuna discriminazione. Il motivo principale era quello di aumentare di numero, e conseguentemente di forza, la comunità. Le donne rapite molto raramente fuggivano, perché ormai avevano solo i figli di cui occuparsi e questi venivano integrati nelle comunità Matsés. Generalmente per queste escursioni gli uomini organizzavano delle squadre che si assentavano per alcuni mesi dal villaggio. Una volta stettero via per un anno intero. Tali squadre, composte da 15/20 uomini, servivano non solo per assalire villaggi nemici ma anche per pattugliare il proprio territorio, per impedire che altri, bianchi o indios che fossero, venissero nella loro terra.
Manuel non attaccò mai un villaggio di peruviani, soprattutto perché abitati da troppe persone che avrebbero potuto sopraffarli o organizzare ritorsioni. Ma altri lo fecero, attaccando il convento cattolico di Requena - a seguito di uccisioni di Matsés da parte di bianchi, che cercavano di penetrare nel loro territorio -, cosa che scatenò le ire del governo peruviano che si fece aiutare dagli elicotteri dell’esercito americano per 4 giorni di bombardamenti al napalm a villaggi Matsés. Secondo testi antropologici, pare che nelle sole comunità Matsés brasiliane, negli anni ’70, le mogli rapite appartenessero ad almeno dieci gruppi linguistici diversi, e costituivano il 40% delle donne. Questo fece sì che i Matsés avessero in realtà il sangue misto - Dennis, infatti, ha degli occhi verdi, più chiari di quelli di tutti gli altri indios, ed Hector si diverte a prenderlo in giro dicendo che non è un indio ma un mestizo -, e nonostante fossero fieri del proprio predominio e della loro forza, spesso mutuarono dagli altri popoli tecniche di caccia, tradizioni e informazioni.
Alcuni Matsés però non erano interessati ad acquisire nuove mogli o figli, si limitavano ad uccidere, per scongiurare futuri attacchi nemici o per stabilire il predominio su una certa zona. Manuel era uno di questi. A volte decideva di organizzare una spedizione solo perché dispiaciuto nel vedere alcuni giovani del villaggio senza compagna. Non si sa quanti nemici abbia ucciso e non si fece soverchi problemi ad attaccare una pattuglia dell’esercito brasiliano, anche se questo gli costò una pallottola in un gluteo. Un’altra volta Manuel e i suoi uomini dovettero fronteggiare una spedizione punitiva organizzata dall’esercito peruviano. Limitarono le perdite a soli 5 uomini, perché le donne avevano avuto il tempo di fuggire e nascondersi nella foresta. Manuel non voleva nessuno che non fosse Matsés nel territorio del Rio Galvez, né indios né bianchi. Non lo faceva per arricchirsi; non rubava nulla, tranne le armi, quelle sì, dei bianchi che invadevano il suo territorio. I fucili erano molto ambiti, e venivano utilizzati anche per cacciare.
Dennis, col copricapo tradizionale dei Matses - Archivio Fotografico Pianeta Gaia
Col tempo anche Manuel si calmò e divenne meno feroce, anche perché a metà degli anni ’60 sia l’esercito peruviano che quello brasiliano cercavano di stanare i Matsés che erano stati costretti ad abbandonare gli insediamenti sulle rive dei fiumi, più comodi e più facilmente raggiungibili, per nascondersi nel fitto della foresta. Fu in questo momento storico in cui i Matsés venivano braccati che arrivarono i primi missionari. In questi anni due suore missionarie-linguiste del SIL - Summer Institute of Linguistics, un’ONG di professione cristiana evangelica - stavano cercando di contattarli ma non si conosceva nessuno che parlasse la loro lingua, fino a quando non vennero a sapere di una certa Sophia, una peruviana che era stata rapita dai Matsés e dai quali era fuggita dopo aver vissuto con loro per dieci anni. Le suore nel giro di un paio d’anni impararono la lingua a sufficienza per capire e farsi capire e tentarono il primo contatto nel 1969. Con un aereo sorvolarono la foresta fino a quando non videro dall’alto una grande maloca che poteva ospitare un centinaio di persone e con l’altoparlante gridarono “Dacuedenda! Dacuedenda!” cioè “Non abbiate paura!”, gettando cibo e machete per dimostrare le loro buone intenzioni. Scesero nel primo specchio d’acqua dove l’idrovolante poteva atterrare ed attesero l’arrivo degli indios. Furono in tre, i più coraggiosi, a presentarsi. Dissero in seguito di aver sentito quelle parole amichevoli provenire dal “grande uccello che faceva un verso come il giaguaro”, che erano stanchi di nascondersi ed erano pronti a stabilire un contatto pacifico. Sophia aveva pure insegnato alle suore dei nomi Matsés e loro, stupiti dal fatto che queste parlassero la loro lingua e conoscessero i nomi di molti di loro, le accettarono tra di loro. Questo avvenne nella zona di Buena Lomas, lungo il fiume Javarì, dove anticamente risiedeva il clan di Manuel prima di spostarsi nella zona del Rio Galvez. In questa zona il missionario che venne era un uomo e si chiamava Esteban. E tutto cambiò.
Canë, la moglie più vecchia di Dunu, fu rapita quando aveva circa 9 anni mentre con la sua famiglia era andata a pescare lungo un fiume. Manuel era a capo di quella spedizione, uccise gli adulti che erano con lei e la rapì. Dapprima venne data in moglie ad un altro poi più tardi, Manuel la volle per sé. Anche Dunu non è nato e cresciuto in una comunità Matsés, ma è stato rapito da piccolo. Dunu crescendo si invaghì di Canë ma sapeva che Manuel non l’avrebbe mai lasciata andare e quindi si spostò in un’altra comunità. Qualche tempo dopo Manuel venne avvelenato dal genero, sobillato dalla moglie cioè la figlia di Manuel che gli aveva raccontato che Manuel voleva ucciderla. Il crimine venne commesso attraverso un chapo avvelenato solo che, poco prima che Manuel lo mangiasse, anche un figlio della coppia che tramava ne volle un po’. Impassibili, non lasciarono trapelare nessuna emozione: il bambino mangiò il chapo, così come Manuel, ed entrambi morirono poco dopo tra atroci sofferenze. Che la causa della morte fosse veleno venne stabilito dai sintomi: entrambe le vittime avevano il collo irrigidito come solo certi veleni sanno fare. Il genero di Manuel venne poi ucciso dal padre biologico di Canë. Dunu rientrò alla morte di Manuel e prese Canë come moglie.
La trasmissione delle tecniche di caccia avveniva con un metodo di cui, parlandone con Dunu, capiamo che si è persa la memoria. Dunu ci racconta - e Dennis conferma che lo stesso tipo di racconto glie lo fece suo padre - che quando aveva circa 12 anni venne rapito e portato nella giungla da un “diavolo”. Costui aveva una faccia nera, da scimmia, un corpo umano e una voce roca, profonda, che solo a sentirla si provava terrore. Parlava loro nella loro lingua, quindi in Matsés. Dunu piangeva ma il diavolo lo teneva nella foresta e lui non poteva tornare al villaggio. Spesso si assentava per molto tempo: lo lasciava su un ramo e lui non aveva il coraggio di scendere. Durante la permanenza nella foresta, gli insegnò tante cose, ma soprattutto a non aver paura degli animali. Glie li faceva toccare, fino al punto di mettergli la mano in bocca, così da fargli capire che non doveva temerli: gli fece toccare il giaguaro, l’anaconda, il tapiro, tutti gli animali della foresta (ma al giaguaro la mano in bocca non glie fece mettere). Poi, dopo circa un mese, assai dimagrito perché mangiava pochissimo, ma rinforzato nello spirito e ormai sicuro di sé, il diavolo lo lasciò tornare al villaggio, dove poi il padre avrebbe perfezionato la sua formazione insegnandogli le varie tecniche di caccia e pesca. In pratica la trasmissione delle conoscenze avveniva nel tempo, quello che veniva insegnato in questo mese era il non avere paura. Dunu, e Armando nelle parole di Dennis, sono tuttora genuinamente convinti che quello fosse un diavolo, e non, come è appena più verosimile, un adulto mascherato all’uopo. In Africa sono piuttosto frequenti i riti di passaggio condotti nella giungla da adulti mascherati (e quindi non solo non riconoscibili ma addirittura non ritenuti umani) nei confronti degli adolescenti che raggiungono l’età per il passaggio allo status di adulto. Pare che la stessa cosa avvenisse per i Matsés ma evidentemente sia Dunu che Armando hanno vissuto questa esperienza solo come iniziandi e non hanno fatto in tempo a farla come adulti che portano i ragazzini nella foresta per gli avvenuti cambiamenti intervenuti nella società Matsés. Sempre lo stesso “diavolo” pare rimanesse un essere soprannaturale anche agli occhi delle donne. Dunu ci racconta che a volte questo diavolo portava degli animali uccisi alle mogli degli uomini che erano fuori a caccia. Se la donna sentiva un canto doveva uscire di casa dove incontrava questo diavolo che gli offriva un animale appena ucciso. Lo doveva accettare e rientrare in casa senza voltarsi. Se si fosse voltata sarebbe morta fra atroci sofferenze.
Pur se tempestato dai becchi di minuscole mosquititos - microscopiche, come i nostri moscerini, ma almeno non trasmettono malattie - che il blando repellente a prestito e l’abbigliamento non adatto hanno reso più fastidiose di quanto avrebbero dovuto essere nei miei piani, ho passato una serata stupenda e mi corico, dentro la mia zanzariera, col cuor contento, pregustando altre serate del genere nei giorni a venire.
(*) Riporto i riassunti di quanto ascoltato in quella serate al lume di candela, col beneficio d’inventario dovuto alla mia non perfetta comprensione del castigliano, alla mia capacità di scrivere al buio e ai discorsi che a volte non vengono portati a termine. I riassunti li ho poi integrati con informazioni trovate tramite altre fonti.
continua...