Non pratico sport estremi, le altezze mi fanno venire le vertigini e non so nemmeno nuotare. Ogni tanto faccio trekking, un paio di volte all’anno, ma mi sono fratturato il mignolo del piede sinistro (sbattendo contro lo spigolo di un mobile mentre giravo scalzo, quindi una cosa più da coglione che da eroe) poche settimane prima della partenza e anche se ho tolto la fasciatura qualche settimana prima della partenza, non solo non sono allenato, ma zoppico pure un po’, causa un ginocchio che, nel poggiare il piede in maniera diversa, ha deciso di prendersela a male. Questo per prevenire le obiezioni che qualcuno solleva sui miei viaggi, come se fossero per superatleti o appassionati di sopravvivenza. È vero il contrario: se un viaggio lo faccio io allora vuol dire che lo può fare chiunque, signore poco atletiche e ragazzini inclusi. Ho un buono spirito di adattamento, quello sì, ma lo definirei il minimo sindacale per uno che ama viaggiare in posti poco battuti. Anche a me piacciono le docce calde, le lenzuola pulite e la pasta cotta al dente, ma se non le trovo non ne faccio un dramma perché, ai miei occhi, le cose che danno valore ad un viaggio sono altre.
PREPARATIVI
La mia compagna stavolta non c’è, un mio giovane collega causa motivi di forza maggiore deve rinunciare pochi mesi prima al viaggio in Iran che stavamo programmando insieme per novembre e quindi, ancora una volta, sarò da solo. A sto punto, sposto le ferie nella seconda metà di ottobre quando, grazie ad un irripetibile super-ponte tra Ognissanti e Patrono (per me il 2 novembre), posso godere, per la prima volta, di tre settimane piene. Quando viaggio da solo cerco di andare in quei posti nei quali presumo non troverò nessuno disposto ad accompagnarmi, quindi rimetto nel cassetto dei desideri l’Iran e comincio a cercare qualche spunto nuovo. È una fase divertente, nella quale ipotizzo le destinazioni più disparate, salvo poi accantonarle perché la stagione non è quella giusta, perché il viaggio costa troppo o perché la destinazione è poco sicura per non andarci in compagnia. Come spesso capita con le illuminazioni, cercando su internet tutt’altro mi imbatto in una foto di un popolo amazzonico del quale non so nulla: i Matsés o Mayorunas, le cui donne portano improbabili “baffi” sul naso nell’intento di cercare di assomigliare ai giaguari.
È la scintilla che cercavo. Non sono mai stato in Amazzonia e per un appassionato come me di popoli che seguono lo stile di vita tradizionale questa è una lacuna che va colmata quanto prima. Ottobre è anche un buon periodo in Amazzonia e, dopo essermi reso conto delle difficoltà soprattutto logistiche ma anche linguistiche (lo spagnolo lo parlicchio ma dubito che basti per dialogare con un indio non troppo civilizzato), cerco un corrispondente locale che possa portarmi presso il popolo citato, che vive in zone non facili da raggiungere, nei pressi della zona cosiddetta Tres Fronteras, dove i confini tra Perù, Colombia e Brasile sono costituiti dal Rio delle Amazzoni e/o i suoi affluenti. Per quanto ogni peruviano che si incontra a Iquitos, la capitale del Perù Amazzonico, si possa offrire come guida per la foresta amazzonica o conoscere qualcuno che si presti a farlo, non posso andare sul posto e arrangiarmi sul momento: visto che si prospetta una cosa più impegnativa del classico giro di pochi giorni nei dintorni di una città, ho bisogno di sapere cosa aspettarmi in anticipo. Dopo varie considerazioni opto per l’agenzia dell'argentino Hector, una scelta che si rivelerà particolarmente felice.
Il tour standard che offre è di 15 giorni, che coprirebbe quasi l’intero periodo che ho a disposizione: volo militare da Iquitos a Colonia Angamos, un villaggio sul fiume Javarì che segna, per centinaia di kilometri, il confine meridionale del Perù col Brasile; raggiungimento in barca di un villaggio Matsés (non ci sono strade da queste parti, solo fiumi); nove giorni presso una comunità locale e poi rientro alla base via terra, attraversando a piedi una zona di foresta amazzonica letteralmente incontaminata, impiegando circa 4 giorni (e dormendo nella foresta per 4 notti) per percorrere una 50ina di km fino a Requena e da lì, su una lancia a motore, tornare ad Iquitos. Allettante. Prendo contatto e manifesto il mio interesse. Chiedo se per caso ci sono altri viaggiatori interessati ad unirsi, cosa che mi dice farebbe ribassare il prezzo totale di quasi un migliaiaio di dollari dalla inevitabile esosa richiesta iniziale, ma non c’è nessuno in lista.
Nel frattempo comincio a documentarmi su quali altri popoli e bellezze naturali ci sono nei paraggi e scopro che nei giorni che mi rimangono a spedizione completata, potrei visitare i Bora e gli Yagua, che però sono piuttosto assuefatti al turismo, essendo più facili da raggiungere visto che vivono ad appena 30 minuti di barca da Iquitos. Continuando nelle mie ricerche apprendo che, nella stessa area, vivono i Matis, una popolazione brasiliana non meno spettacolare dei Matsés. Cerca e ricerca, non trovo nessuno che porti a questi ultimi, che tra l’altro stanno in Brasile. L’unica cosa che trovo è un sito che descrive gli indios di questa zona dell’Amazzonia e l’autore, un americano che vive a Iquitos, ha scritto in calce un generico “se siete interessati a visitare questi popoli, mandatemi una mail”. Mi stampo tutte le pagine relative agli indios che potrei incontrare nelle zone dove andrò e gli scrivo, ma non ricevo risposta. L’americano ha pure girato dei video sui Matis e li vende via web. Acquistandone anche solo uno si ottiene l’accesso ad un’area riservata dove sono scaricabili mappe e articoli inerenti. Compro un video e ribadisco il mio interesse via mail. Stavolta l’americano risponde.
L'alba sul Rio delle Amazzoni - Archivio Fotografico Pianeta Gaia
Ci sentiamo via skype e mi dice che i Matis sono contattabili, come lui ha fatto, solo che non hanno un telefono, bisogna incontrarli sul posto e poi mettersi d’accordo su cosa fare, tenendo conto che in Brasile, in teoria, sarebbe necessaria l’autorizzazione preventiva del FUNAI (Fundaçao Nacional do Indio, l’agenzia brasiliana per i contatti coi popoli indios). Mi dice anche che mi chiederanno un mucchio di soldi per essere fotografati e/o ripresi (migliaia di dollari, anche se poi si potrà trattare al ribasso): questo perché lui e quei pochissimi altri che li hanno incontrati (come ad esempio Bruce Parry del programma Going Tribal della BBC) pagarono parecchio, vista la rarità della situazione. A parte che la telefonata è piuttosto difficile da capire per problemi di connessione (peruviana), l’americano mi lancia dei segnali contraddittori: da un lato mi dice che non ho bisogno di spendere tanti soldi per andare a visitare i Matsés, che basta andare a Colonia Angamos e poi farsi portare con una barca ad un villaggio sul Rio Galvez (suggerisce il villaggio di Jorge Chavez), dall’altro mi dice anche che sia i Matsés che i Matis stanno parecchio sulla difensiva coi turisti, che non li amano particolarmente (e questo è un bene per loro, aggiunge) e che tutto sommato farei meglio a non complicarmi l’esistenza e andare a visitare qualcos’altro in Perù, tipo Macchu Picchu. Sorry my friend, ma ci sono già stato: ora mi interessano i Matis e quindi, se può come dice, mi metta in contatto con loro.
A questo punto non intendo più dedicare 15 giorni ai Matsés, perché non mi rimarrebbe tempo per i Matis che, peraltro, non sono proprio a due passi dai primi. Visto che nessun altro viaggiatore si è fatto avanti e quindi non c’è un programma già accettato anche da altri da rispettare e chiedo delle modifiche al programma. Per quanto i Matsés siano interessanti, credo che nove giorni presso di loro siano decisamente abbondanti e quindi opto per ridurre ad una settimana il tempo da trascorrere presso di loro. Inoltre il ritorno via terra, anche se lo immagino piuttosto “divertente”, chiedo di sostituirlo con un ben più veloce rientro in volo, anche se mi dicono che i voli sono sempre soggetti alle bizze del tempo. Così facendo mi rimarrebbe un’altra settimana per raggiungere in autonomia Leticia, la città colombiana sul confine col Brasile, e cercare di incontrare i Matis e altre etnie della zona, come i Tikuna, nonché dei Bora e Yagua sulla via del ritorno verso Iquitos meno abituati ai turisti di quelli nei paraggi della città. Mi informo anche sulla possibilità di raggiungere Leticia via fiume partendo da Colonia Angamos, ma la scarto dopo aver visto costi e tempistica (almeno 450$ solo di carburante e non meno di 3 giorni di navigazione). L’agenzia mi dice, se ho qualche dubbio, di contattare Serenella, leader del gruppo di Avventure nel Mondo che fece da apripista per questa spedizione nel 2010. La chiamo e anche se loro soggiornarono in un villaggio diverso, ottengo molte informazioni di prima mano che mi saranno utili. Ormai ho tutte le informazioni che mi servono, all’appello manca solo il contatto che l’americano mi ha promesso ma che tarda a darmi. Parto che non si è ancora fatto vivo, cercherò di tenere i contatti quando riuscirò a trovare un internet point. Il piano B consiste nell’andare ad Atalaia do Norte, in Brasile, un villaggio mestizo dove so che vivono alcuni Matis e lì cercare di organizzare qualcosa.
Finalmente parto, con l'adrenalina che mi scorre nelle vene: poche volte mi sono imbarcato in un viaggio con così tante incognite da chiarire in corso d'opera...
continua...