7° giorno
Piove mentre prepariamo colazione, le nuvole son bassissime, par di toccarle con un biscotto. Però oggi è tempo di postale, la nave che tre volte al giorno collega da Hvannasund le due isole orientali, di Svínoy e Flugoy, sprovviste di tunnel o ponti che le rendano unite alle altre. Il postale Rital parte subito dopo il ponte che collega Bordoy con Vidoy, c’è pure una struttura dove aspettare, dato il clima invernale, non male. Si paga direttamente sulla nave (circa 2 ore d viaggio, ma dipende da quanto ci sia da lavorare nei tre ormeggi previsti), non si prenota, ma il “pubblico” è contenuto. C’è un locale sottostante dove poter starsene al caldo, ma da lì, nonostante quale oblò, si perde la vista e soprattutto il contatto con le isole. Sopra, invece, si rimira il tutto, ma fa un freddo intensissimo pure a metà agosto. Aggiriamo i grandi allevamenti di salmone nel fiordo per immetterci in mare aperto, dove si balla forzatamente. Le manovre son svolte in cabina, mentre quando si accosta un addetto guida dalla macchina operatrice posta sul lato destro, per movimenti molto misurati. A Svínoy i primi lavori, si scaricano provviste e rare persone, si preparano ponteggi (li ritireremo al rientro, altra sosta qua), il tutto dalla gru posteriore, gli addetti ci forniscono info su questi lavori e la vita remota di queste isole isolate (e se sono isolate per chi vive ad Hvannasund, fate voi…) abitate da ben 12 persone, in inverno pure meno. Raggiungere Fugloy è roba per stomaci forti, l’attraversamento del Flugoyarfjørður anche in giornata a dire dei marinai del posto tranquilla, fa vedere il fondo del mare e il cielo in contemporanea. Flugoy ha ben due attracchi con villaggi direttamente su questi, a differenza di Svínoy dove l’attracco è dalla parte opposta del villaggio, nonostante sia la più lontana pare più vissuta, ma pure qui a 12 abitanti si arriva, forse in aumento in estate, qualche capitolino possiede ancora la casa di famiglia e ci passa qualche giorno. Solite manovre e via di nuovo per l’attraversamento del fiordo, meno problematico dell’andata perché costeggiamo da Hattarvik a Kirkju, meglio così, per fermarci nuovamente a Svínoy completando il carico. Siamo ormai familiari coi lavoranti, il rientro lo si passa tra qualche info e la ricerca di postazioni col vento meno terribile possibile, rientrati riprendiamo le auto per andare a nord di Vidoy, in un clima veramente terribile. Giunti a Viðareiði ci sarebbe l’ascesa al Villingadalsfjall, 841 metri a strapiombo sul mare da dove rimirare tutte le punte a nord dell’arcipelago. Ma chi ne ha voglia? Piove ancora, le nuvole coprono pure il villaggio che proviamo a girare con la solita chiesa sul mare con tetto caratteristico, abdichiamo all’idea e proviamo a raggiungere sull’isola di fronte il non più abitato villaggio di Múli. Non piove, così tentiamo di fare almeno due passi lungo la costa, Múli consta proprio di rare case, in estate alcune pure vissute, escursione volendo evitabile in caso di bel tempo e mete raggiungibili altrove. Passando da Klaksvik tappa per cibo, alcuni fanno scorta di birra direttamente dalla produzione del Föroya Bjór, unico produttore nazionale con svariati marchi differenti. Il prezzo è largamente conveniente rispetto a qualsiasi altra ridotta alternativa, circa un euro a birra, al pub arrivano a 8 €. L’orario è giusto per approfittare della bassa marea odierna e visitare la spiaggia nera a Saksun, di strada in auto ne dobbiamo percorrere, ma il traffico inesistente agevola. Lasciamo le auto al parcheggio a circa 100 metri dal cancello, si entra pagando 75dk con carta di credito munita di chip, il tornello magicamente si apre. Notiamo come qualche autoctono faccia il portoghese, non tanto saltando le reti, ma pigiando a lungo il tasto sul retro che permette l’uscita o l’eventuale disincastrarsi del tornello, siamo più onesti noi di loro. La prima parte costeggia la laguna Pollurin regalando quelle immagini sognanti delle rare abitazioni con tetto verde nel verde sotto le cascate e con la laguna ai loro piedi, poi prendendo il lato destro del canyon ci si dirige alla spiaggia nera, Út á Lónna. È uno spettacolo spiazzante, tra grandi pareti verticali grigie ammantate di verde, questa spiaggia completamente nera cosparsa da piccole lagune che paiono vuote data l’acqua completamente trasparente, un autentico spettacolo di magia della natura. I più ardimentosi (diciamo la verità, uno solo!) tentano pure l’immersione almeno fino al ginocchio, impresa ostica ma a suo modo terapeutica. Il rientro lo facciamo col drone che ci rincorre, ci regalerà a seguire spettacolo nello spettacolo, da qui la vista su Saksun è ancora più magica, per uscire dal cammino pigiando il famoso tasto che permette ai tornelli, piccoli movimenti in apertura. Arrivati alle auto rivisitiamo pure il paese prendendoci il tempo per le foto più classiche del luogo, non abbiamo il trekking verso Tjørnuvík ad attenderci, possiamo permearci di questo sito fuori dal tempo e dalla velocità. Al ritorno in paese la delusione è grande nel non trovare il van per il fish&chips tanto sognato, sarà in altro luogo, evidentemente ogni giorno frequenta una diversa piazza. Rientrati a casa doccia bollente, ne abbiamo bisogno, poi è ora di preparare la cena e a seguire tentare un’escursione per provare a regalarci un tramonto a effetto dal passo Eiðisskarð. Il tramonto non sarà ad effetto, solite nuvole da censura, però c’è gente, mai visto un traffico del genere, che succede? Alla domanda se ci sia una festa, ci rispondono sbigottiti, festa? Come se qui festa sia argomento sconosciuto. In realtà qualcosa accade, due atletici indigeni stanno tentando l’ascensione all’Everest alla maniera faroense. Faranno di corsa dal mare alla vetta dello Slættaratindur il percorso ben 18 volte, così da simulare il dislivello del tetto del mondo. Ognuno si diverte a suo modo e dà modo ai tanti del luogo di avere circa una giornata di lucida follia e qualche argomento da dibattere. Ci sono tavoli con cibo e da bere per tutti, affrontando il solito vento gelido. Rientriamo a casa al termine di una giornata da 166 km.
La chiesetta di Saksun - Copyright Pianeta Gaia
8° giorno
Colazione in casa e subito partenza per Elduvik per un trekking abbastanza comodo con destinazione Oyndarfjørður. Il sentiero parte lambendo la costa, buona parte in piano con qualche passaggio a strapiombo, ma ci sono corrimani per chi teme di non farcela, tutto molto semplice. Leggera salita una volta lasciato il mare, si taglia il promontorio di Tindur per approdare in leggera discesa alla meta finale, con passo leggero e soste per panorami e foto in circa un’ora. C’è chi lo fa pure al rientro per recuperare le auto, mentre altri attendono a destinazione. Ora ritentiamo l’ascesa alla montagna più alta delle Faroe, Slættaratindur, il clima è terribile, un vento che spazza via tutto, le nuvole coprono la cima e dopo qualche decina di minuti di attesa decidiamo di rinunciare, troppo pessimo il clima, oltre al fatto che in cima non si sarebbe visto nulla. Tappa a Oyrarbakki per il consueto pranzo hotdog&caffè americano, scegliamo di vederci alcuni posti non considerati fino ad ora. Il primo è il villaggio tipico di Funningur, come molti incastonato in un piccolo spazio tra le montagne con accesso al mare, ovviamente contraddistinto da una chiesa col tetto ricoperto di erba, anche questa chiusa ma in perfette condizioni di conservazione. Da qui, con un giro che taglia buona parte delle isole prendiamo per una delle meno battute e più sconosciute, Kunoy. Distante una cinquantina di km, compreso il tunnel Eysturoyarvegur, vi si accede tramite ponte dall’isola Bordoy passando da Klaksvik. A parte le 3 case 3 nei dintorni del ponte che danno nome al villaggio di Haraldssun, non v’è nulla sulla costa est, “tutto” sta nella parte ovest, raggiungibile percorrendo lo strettissimo Kunoyartunnilin, circa 2 km non illuminati, senza vista sull’uscita, con piazzole per scambio ogni 200 metri, ma il traffico le rende inutili, qui non arriva nessuno. Nel villaggio omonimo sorgono alcune abitazioni tipiche e una chiesa, questa senza tetto d’erba ma aperta, almeno riusciamo a vederne una. L’addetto sta facendo le pulizie, ci invita a entrare, ma penso sia l’unica persona che non parli una parola una d’inglese, italiano, francese o spagnolo dell’isola, così le info sono minimali, non capisco se 70 persone siano quante ne contenga la chiesa o quante siano quelle fisse nel paese, o forse entrambe le cose. Si può fare un giro ad anello sopra al paese per raggiungere una piccola sorpresa, un bosco, l’unico dell’arcipelago. Il Viðarlundin í Kunoy si trova sotto un arco roccioso naturale, trae linfa dal fiume Myllá lungo quasi un km, è attraversabile lungo brevi sentieri nei quali ci imbattiamo in alcune coppie che portano i loro piccoli a vedere questa stranezza della natura. All’uscita il panorama dell’isola è impreziosito da qualche canestro (incredibile quanti ce ne siano da queste parti, anche se nessuno gioca partite, per loro si tira a canestro e basta, questa impressione che mi son fatto osservando ogni canestro incontrato e i loro avventori mi è stato confermata da un ragazzo serbo che vive 9 mesi all’anno sulle isole, e come tradizione un serbo di basket sa tutto!) e da un campo da calcio a strapiombo sul mare, in discesa e storto, auguri a giocarci. Non c’è nemmeno un piccolo bar dove far tappa, nulla, isolamento totale su questa stretta terra con montagne quasi fino ai bordi. Il clima non è il massimo ma un’escursione col drone va tentata. La curiosità lo fa spingere fino all’isola di fronte, così da arrivare fino alla celebre Kópakonan, la statua della donna foca a Mikladalur, isola di Kalsoy. Nuovamente non teme il vento nemmeno tra le isole in mare aperto. Terminate le escursioni sull’isola, a nord non ci sono più strade, un sentiero in terra battuta di 500 metri che conduce a una casa privata e nulla più, riprendiamo la via di casa, ma passando nel centro di Klaksvik notiamo in un parcheggio di un centro commerciale chiuso (è sabato pomeriggio, ci mancherebbe) il van del fish&chip, e allora una sosta con assaggio è un obbligo. Una porzione standard costa 100dk, è merluzzo, poi ci sarebbero anche altre qualità ittiche, ma manca la traduzione, e poi è sufficiente la versione basica, giusto per entrare nello spirito del luogo. Quantità abbondante (patatine fritte pure troppe), qualità buona, tempi d’attesa veloci, pure maxitendone dove cibarsi riparati dalle intemperie, serve altro? Rientrando facciamo tappa all’ultimo villaggio lungo il cammino, Fuglafjørður, che potremmo definire un posto industriale tutto attorno al proprio importante porto, nulla di particolare da vedere. Rientro a casa, ultima sera di viaggio, ultimo rabbocco carburante e poi doccia bollente per controbattere il freddo della giornata e la pioggia che fuori bagna la serata impedendoci anche l’ultima camminata per smaltire la cena abbondante, va finito tutto quanto rimasto. Tempo per il check-in on line, ma la prima tratta non è fattibile, così nemmeno il PLF è compilabile perché teoricamente servirebbero i posti esatti dove si siederà nei tre aerei che dovremo prendere. Percorsi 188 km.
Vista del Funningsfjordur, alla cui estremità sorge il villaggio di Funningur - Copyright Pianeta Gaia
9° giorno
La sveglia trilla quando l’alba ancora non si è palesata, e qui significa molto presto. Colazione in casa, carico zaini in auto e via, destinazione aeroporto di Vágar sull’omonima isola, che raggiungiamo attraversando l’isola di Stremoy ed il tunnel sotto al Vestmannasund, percorsi 51 km. Consegnate le auto (controlli pari a zero) arriviamo con 2 ore di anticipo in aeroporto che però è chiuso. Un addetto ci scorge e gentilmente apre la porta principale, possiamo attendere al caldo, all’interno e seduti, usando il wi-fi a disposizione senza nessuna password. Appena il check-in apre, velocemente ritiriamo le carte d’imbarco e possiamo predisporre il PLF, faccenda brigosa che consta nel nostro caso di ben 14 passaggi, se uno è sbagliato non si procede, e non segnala cosa non lo sia. In realtà ci verrà detto di segnare un posto a caso sull’aereo e procedere. Pratiche velocissime anche perché a parte questo volo Atlantic per Copenaghen non c’è nessun altro volo in programma per le prossime quattro ore, il duty free apre mentre siamo chiamati all’imbarco, le poche addette potevano restare a casa per altre quattro ore a quel punto. Volo puntuale druante il quale è offerto da bere ma cibo solo a pagamento, come all’andata, arrivati nella capitale danese ho sei ore d’attesa così decido di uscire per visitarne il centro, non ci passo dall’Interail del 1992. Con la metro gialla si raggiunge il centro in otto fermate, 13 minuti, è una meravigliosa giornata di sole e mi lancio nella visita, bloccato qua e là dalla gara dell’Ironman, pure sulle scenografico Nyhavn. Scansando un po’ di folla fuori dal ponte Nyhavn, la vista delle coloratissime case a murata simbolo della città (ok la sirenetta, ma questo è pieno centro) emerge prepotente tra infiniti ristoranti operativi a qualsiasi ora e sciami di gente a cui non sono più abituato. Prendendo strade a caso mi spingo fino all’isola del palazzo di Christiansborg, in parte in ristrutturazione. Ma il bello della città in una giornata calda e soleggiata è quello di aggirarsi con tranquillità tra un canale e una piazza con la gente che si gode il buon clima. Per rimanere in tema, un ultimo hotdog in un baracchino e un centrifugato di frutta. Noto come nessuno utilizzi mascherine anche se a differenza delle Faroe non si è sottoposti a nessun controllo all’ingresso. Terminato il soggiorno purtroppo brevissimo nel centro di Copenaghen, riprendo la via dell’aeroporto, controlli doganali velocissimi, ma imbarco ritardato. Qui al gate i passeggeri con destinazione Amsterdam provenienti dalle Faroe e da altri paesi fuori UE sono chiamati al gate a mostrare il Green Pass, che guardano confrontandolo col passaporto ma non lo scansionano. Il volo KLM è in ritardo, anche se i tempi una volta decollati paiono in recupero, è servito il solito sandwich con bevande. All’arrivo nessun controllo, chi ha coincidenze ristrette era già stato avvertito di seguire determinate linee, per Bologna ho 45’ di tempo, non tantissimo ma sufficienti per arrivare con comodo all’imbarco. Volo KLM puntuale, anche su questa tratta servito sandwich e bibite, arrivo dopo 1:40 e ritiro lo zaino dopo nemmeno 5 minti, all’uscita un’addetta chiede da dove si provenga, ma senza necessità di esibire nulla, così la brigosa pratica del PLF cade nel vuoto. Fuori fa caldo, un caldo da mezzogiorno estivo nel Sahara per chi giunge da una settimana da 13° come temperatura massima, un ritorno all’estate e alla gente, più in quest’aeroporto che in tutte le Faroe. E così il primo viaggio dell’era post covid19 è andato, agevolato dal fatto di essere stato in un luogo isolato, con pochissimi abitanti e rare linee di accesso che ha permesso la visita come si viveva prima della pandemia.