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Amazzonia - XIV (fine)

Il diario di viaggio di un affascinante avventura nel cuore della foresta pluviale
16 Maggio 2014

 

...segue 

 

19 – Invasati capelloni

Per una volta non devo alzarmi ad orari infami, visto che prima delle 8:00 non avrò conferme. Colazione in panaderia e ancora una volta sbaglio scelta: una delle due paste scelte è un tale mattone che non riesco a finirla. Col sacchettino in mano torno dove la sera prima avevo cenato: il locale è chiuso ma è aperto quello a fianco e ha due frullatori in bella vista sul tavolo, proprio quello che stavo cercando. Chiedo che succhi prepara: di maracuja e uno mezclado, con maracuja, platano e papaya, di colore rosa. Provo il secondo e, come la sera prima, il bis vien da sé. Me la sto proprio godendo la frutta amazzonica.

 

Finalmente la bigliettaia ha avuto l’agognata conferma: il Rapido passerà verso le 11:00 e quindi mi dice di ripresentarmi al suo ufficio verso le 9:30. Siamo a 50 metri dal porto, un’ora e mezza mi sembra tanto ma ormai so che i tempi amazzonici riservano delle sorprese. Mi rimane appena il tempo per un’ultima passeggiata per Pevas e cerco di raggiungere l’abitazione del pittore Grippa che si vede svettare dal porto: non ho mappe, vado a naso, non la trovo ma ho modo di vedere un quartiere un po’ più sgarrupato rispetto al centro di Pevas dove le case sono in muratura. Sulle pareti di quasi tutte le abitazioni vi è il nome del candidato sindaco – perdente - ulteriore prova che la ruota gira meglio per altri.

 

Torno al hostal, saluto Doña Imelda e vado alla biglietteria. Mentre attendo, chiedo alla signora del negozio a fianco il motivo del velo da suora che lei, come alcune altre donne che ho incontrato nel villaggio, porta sul capo. “Perché così è scritto!” è la perentoria risposta del marito che ha una treccia di capelli che gli scende fino alle terga. Si tratta di una coppia di Israeliti, una setta cristiana messianica che da queste parti annovera diversi credenti. Gli uomini non possono radersi né capelli né barba, roba che agli indios, tendenzialmente glabri, non crea i problemi che avrei io: non mi rado dalla partenza, quindi da poco meno di tre settimane, e al suo confronto potrei già apparire un patriarca.

 

Chiedo loro in quali altri paesi è diffusa la loro religione e l’uomo risponde: “In tutto il mondo!” mentre la donna, più realista, ammette che “il Perù è un paese privilegiato”. Poi mi rendo conto di aver svegliato il can che dorme perché cominciano a spiegarmi che solo loro rispettano veramente i dieci comandamenti, le sacre scritture e via dicendo. Sento l’inconfondibile puzza dell’integralismo e mi guardo bene dall’alimentare ulteriormente il loro fervore ma mi lascia sempre perplesso notare come da un libro sacro, in teoria giunto a noi inalterato, sia esso Bibbia, Corano, Torah o altro, immancabilmente nascano decine di varianti di pensiero, ognuna che si ritiene l’unica portatrice della verità.

 

È ora di andare al porto e, tanto per cambiare, la bigliettaia si porta dietro la figliola: mi sa che ci scappa una gitarella. C’è un altro che deve prendere il Rapido, un ragazzo con uno zaino da backpacker, una specie di 24 ore e una tenda, pare peruviano. Capisco che lui va nella direzione opposta e che il suo Rapido, quello della Transtur, passerà sulle 10:00. Quando arriva la fast boat del ragazzo, sale, lo segue anche la signora e mi fa segno di salire anch’io. Eseguo senza capire, ma poi apprendo che la Golfinho non fa scalo a Pevas ma solo al porticciolo di Pujuayal, la caserma della marina militare che sta un paio di chilometri più a monte: in pratica la concorrenza mi porta a gratis dove posso prendere il Rapido della Golfinho.

 

Giunti a Pujuayal scende una ragazza e uno dello staff le sbarca la pesante valigia. Vedo che viene scaricato anche lo zaino del ragazzo peruviano e mi viene il dubbio di non aver ancora capito la logistica. Completate le operazioni il Rapido della Transtur parte e, sarà per essere rimasto vittima di uno smarrimento di bagaglio da poco, noto che lo zaino è sulla banchina ma il peruviano è rimasto sulla barca che se ne sta andando. Lo dico alla bigliettaia per essere sicuro che sia tutto a posto e lei, appena realizza, si mette ad urlare, ed io con lei, sbracciandoci all’indirizzo della barca che è ormai si è staccata dalla banchina di una ventina di metri ma si sta girando ed è ancora a tiro delle nostre urla. Accostano di nuovo, col peruviano che viene a riprendersi lo zaino con un’espressione un po’ stranita. Viaggiatori di tutto il mondo, uniamoci contro le inefficienze dei vettori di trasporto!

 

Cucciolo a Pevas

Cucciolo a Pevas - Archivio Fotografico Pianeta Gaia

 

Ora c’è un’oretta da aspettare, il sole picchia come un satanasso e ci accomodiamo dentro ad una specie di lancia militare col tetto per cercare sollievo. Nel frattempo è tutto un viavai di giovani militari che vengono al fiume chi per rinfrescarci, chi per lavare i panni, chi per farsi un tuffo. Non pare si ammazzino di lavoro. Si sente del trambusto: sembra ci sia una licenza di gruppo perché ad ognuno, prima di imbarcarsi, viene ispezionato il bagaglio. Poi salgono tutti su una lancia a motore, senza bagagli: ne conto 22, 23 col barcaiolo, con la barca il cui bordo non sta a più di 5 centimetri dal pelo dell’acqua. Finalmente giunge anche la mia fast boat, la riconosco da lontano dalle onde che solleva, e pago la bigliettaia.

 

Salgo e praticamente è pieno, ci sono due posti liberi, meno male che ho preso il posto garantito. Poco dopo servono il pranzo. Giungo a Iquitos verso le 16:00, dribblo velocemente i piloti di mototaxi che si accalcano sulla banchina, raggiungo la strada e ne prendo uno. Mi sto facendo portare al solito posto quando butto l’occhio sulla strada dove c’è l’ufficio di Hector e lo vedo intento ad armeggiare attorno alla sua motocicletta, allora faccio fermare il mototaxi. Gli racconto com’è andato il mio prosieguo del viaggio, gli porto i saluti dal villaggio Bora ma soprattutto gli dico che ho preso contatto con un Matis voglioso di accogliere turisti e che gli darò tutti gli estremi. Non faccio in tempo a dire cosa voglio in cambio che Hector mi dice: “Se riesco ad organizzare una spedizione, per te c’è un posto gratis”. Telepatia? Ci diamo appuntamento per cena, torno al solito hostal ma stavolta, per l’ultima notte, mi concedo il lusso di una camera con l’aria condizionata.

 

20 – Cerbottane

 

Ultimo giorno in Amazzonia. Cose da fare e vedere a Iquitos e dintorni ce ne sarebbero ma sono due quelle che mi interessano veramente. Una è vedere il “famigerato” mercato di Belen. Hector non ha altri impegni e quindi si presta volentieri a farmi da guida o forse sarebbe meglio dire da guardia del corpo. Questo perché questo mercato gode di una sinistra fama, al punto che Hector mi suggerisce, una volta sul posto, di assoldare un poliziotto con una piccola mancia, in modo da sconsigliare eventuali malintenzionati. Non sono così sicuro che sarebbe una grande idea, passerei ancora meno inosservato. Alla fine ci ritroviamo in mezzo al mercato quasi senza accorgercene e allora continuiamo così: lo zaino lo metto davanti e tengo le antenne dritte.

 

Il mercato pullula di gente e, diversamente dai mercati asiatici a cui sono più abituato, è meno suddiviso per aree merceologiche: le bancarelle non sono concentrate per tipologia, cioè tutte quelle che vendono carne in una zona, poi quelle che vendono verdura, ecc. Fa eccezione solo una viuzza, trasversale, dove sono riuniti tutti i venditori di piante medicinali: erbe, foglie, radici, cortecce e qualsiasi altra cosa che un bravo curandero o sciamano non può fare a meno di utilizzare. Molto diffusi sono anche i preparati afrodisiaci, predisposti in bottiglie dalle etichette inequivocabili: dal “para para” - traducibile in “rizza rizza” - ad un più sfacciato “R.C.”, sigla che i locali sanno perfettamente significare “rompe culos”.

 

Il mercato è anche famoso perché vi si trovano le carni e le uova di qualsiasi animale della foresta. Nonostante alcune specie siano ufficialmente protette, qui nessuno si cura di sollevare obiezioni. Vedo tutti i tipi di pesce, dal gigantesco paiche ai famigerati piranha che qui sono solo un alimento, dai pesci che saltano a quelli, tenacissimi, che continuano a dibattersi anche dopo ore che sono stati tolti dall’acqua. Vi sono tartarughe di fiume e le relative uova, gli inquietanti gusanos - gigantesche larve delle palme -, un cucciolo di bradipo che è un animale domestico molto apprezzato, almeno fino a quando non raggiunge le dimensioni per costituire un pasto adeguato.

 

Scendiamo in una zona che Hector reputa più pericolosa di altre perché mi vuole mostrare la “Venezia Loretana”. Di veneziano ora ha ben poco: una piazza rotonda che si eleva di alcuni metri rispetto alle strade che la circondano. È verso la fine della stagione delle piogge che questo luogo giustifica il suo soprannome: le strade, e con esse i piani terra delle abitazioni e negozietti che vi si affacciano, si allagano, lasciando solo la piazza circolare all’asciutto. Non so se queste strade siano meno sicure - non mi paiono molto differenti dalle altre - ma paiono decisamente più malsane: le pozzanghere che le costellano hanno l’inequivocabile fetore delle fogne.

 

Un piatto di gusanos, larve della palma

Un piatto di gusanos, larve della palma - Archivio Fotografico Pianeta Gaia

 

Rientrati in centro, ci concediamo l’ennesima bevanda tropicale per le quali sto acquisendo una specie di dipendenza: stavolta succo di huasaì. Si unisce a noi un amico di Hector, un italiano originario di Vicenza, da anni in Sudamerica come costruttore edile, dapprima in Venezuela, Brasile e non ricordo dove ancora, ultimamente stabile in Perù, dove ha moglie locale e figlia. Mai più rientrato nel Belpaese dalla sua partenza, pare non così convinto della scelta fatta ma quando sa che sono italiano mi chiede ironicamente come siamo messi adesso in Italia, se ci sono più neri o bianchi. A prescindere dal resto, una battuta del genere mi pare assurdo che esca dalla bocca di uno che ha scelto di vivere e mettere su famiglia nel Terzo Mondo…

 

Nel pomeriggio ho tempo per l’ultima escursione. Al porto Hector mi affida ad un barcaiolo suo amico col compito di portarmi in una comunità Yagua. Ha una bella barca, larga e protetta da una larga tettoia, che pare quasi sprecata per un solo turista come me. Risaliamo il Rio Nanay e poco dopo, all’altezza di una confluenza dove sorgono alcuni ristoranti galleggianti con tanto di motoscooter a disposizione, deviamo per il Rio Momon. Dopo una mezzo’oretta di navigazione siamo al villaggio Yagua. Si incontra una maloca deserta, il villaggio è più arretrato, ma il barcaiolo sa cosa fare: c’è un tamburo e lo suona per un po’. In pratica è come un campanello: nel giro di pochi minuti cominciano ad apparire, alla spicciolata, gli Yagua. Adulti, ragazzi e bambini. Detta come va detta: questi stanno in abiti moderni e non appena sentono suonare il tamburo si cambiano per fare lo spettacolo per i turisti. Nessuna sorpresa, sapevo che così vicino a Iquitos non avrebbe potuto essere diverso e comunque non riesco a sentirmi un turista defraudato: chiedono poco, sono sorridenti e si lasciano fotografare. Alla fine mi sono più simpatici dei Tikuna.

 

Si ritiene che sia stato a causa degli Yagua che questa zona del mondo è stata chiamata Amazzonia: tradizionalmente gli uomini Yagua indossavano delle gonne di paglia - in realtà sono fibre ricavate da una palma, l’aguaje - e dei copricapo piumati: la leggenda vuole che i primi Spagnoli che li videro, armati di cerbottane, pensarono fossero delle donne guerriere. Le donne utilizzavano le stesse fibre per una specie di pettorina che portavano sul seno nudo e indossavano delle corte gonne rosse, ora ricavate da tessuti comprati.

 

La danza che eseguono gli Yagua è piuttosto semplice: un adulto suona il tamburo girando in cerchio al centro della maloca, un altro lo segue suonando una specie di flauto, donne e ragazzi li seguono corricchiando. Anche in questo caso ricorro al solito espediente delle foto sulla soglia dell’entrata, siano adulti che bambini si prestano senza problemi.

 

Poi c’è la dimostrazione sull’uso della cerbottana (pucuna), di cui gli Yagua sono considerati maestri. Ora potrebbero usare strumenti più potenti e precisi come i fucili, ma costando molto meno le cerbottane sono ben lungi dall’essere accantonate. Le cerbottane Yagua sono considerate dei piccoli capolavori di artigianato per le quali sono necessari diversi giorni di lavoro e non è raro trovarne in uso presso i Matis, nonostante questi ultimi siano abituati ad armi molto più lunghe. I dardi sono ricavati dagli spini di un’altra palma e alle loro estremità vengono incollati dei batuffoli di cotone ricavati dai frutti della lupuna, utili a prendere la spinta del soffio e a bilanciare il dardo durante la sua corsa. Gli Yagua sono anche molto abili nella preparazione del curaro usati per rendere i dardi micidiali. Il curaro - ottenuto non solo dalle liane del curaro vero e proprio ma anche da altre piante che danno stricnina - non uccide le prede ma le paralizza: la morte giunge per soffocamento causato dal mancato funzionamento dei polmoni.

 

Uomo Yagua col copricapo tradizionale

Uomo Yagua col copricapo tradizionale - Archivio Fotografico Pianeta Gaia

 

Dopo un po’ arriva un gruppetto di turisti, finalmente, così gli adulti sono affaccendati nell’intrattenimento dei nuovi arrivati e io posso dedicarmi, senza tutti gli occhi addosso, a cercare qualche scatto meno impostato. Chiedo se posso andare a visitare il villaggio, di circa 60 anime, che sta lì dietro, ad un centinaio di metri dalla maloca. Non è molto diverso da qualsiasi altro villaggio a ridosso della foresta: case costruite con assi di legno, pavimento rialzato, tetti di foglie. Nel rientrare incontro tre giovani donne che guardano verso la maloca ma si tengono a distanza. Facendo il finto tonto butto lì un: “Loro non danzano?”. “No”. “Non vi piace?”. “No”. Non dicono altro ma traspare nettamente come disapprovino lo stare a seno scoperto delle compaesane. Rientro che sta arrivando un altro gruppetto e a questo punto sono poco più che trasparente: ci sono nuovi turisti, probabilmente più malleabili, ai quali offrire le proprie mercanzie. Tornando alla barca ne sopraggiunge un altro: giornata piena per i simpatici Yagua.

 

Rientrato a Iquitos mi ritrovo con Hector col quale abbiamo diverse cose da fare: mi deve dare una chiavetta usb che, una volta in Italia, devo spedire ad una sua precedente cliente italiana, visto che le lente connessioni internet sconsigliano altri sistemi; dobbiamo imballare le lance e le frecce perché la posta peruviana non accetta pacchi più lunghi di 1,5 metri; gli do gli estremi per contattare i Matis. Poi Hector mi chiede di girare un breve video dove parlo del viaggio, per metterlo sul suo sito. Fatto tutto andiamo a berci quello che per me è l’ultimo nettare tropicale: guaranà, un po’ troppo dolce però. Saluto Hector con la promessa di tenerci in contatto, qualche acquisto per chi è a casa – ma anche un bel libro sui popoli indigeni del Perù per me - e torno al hostal per fare quella doccia che avevo chiesto di poter fare prima di andare in aeroporto.

 

All’aeroporto comincia un’altra lunga attesa, vivacizzata solo dalle urla di uno stormo di ragazzine peruviane che scattano foto coi cellulari e strillano come aquile: “Los Chinos! Los Chinos!”. Si direbbe una boy band costituita da ragazzi dai lineamenti asiatici che spopola, anche se l’altra metà degli astanti sorride più degli isterismi delle ragazze che di altro. Depositati armi e bagagli - mai stato in senso più letterale! - al deposito così da essere più leggero e pasteggiato al McDonald’s, comincia un’altra lunga notte, anche se stavolta, forte dell’esperienza dell’andata, so dove andare.

 

21 - Furto all’aeroporto

 

Dopo aver, prevedibilmente, dormito poco e male, penso che almeno ora tutto sarà in discesa. Ritiro il bagaglio dal deposito e vado a fare il check-in. Problema: il pacco delle lance è troppo lungo, se le voglio caricare devo pagare un sovrapprezzo. Un viaggio nato sotto una cattiva stella per quello che riguarda i voli. “Vabbeh – penso – pagherò quei pochi dollari”. Invece sono ben 154 quelli che mi chiedono, praticamente dieci volte tanto quanto ho pagato la lancia! Non li ho neanche: dei dollari che mi ero portato appresso mi sono rimasti solo quei tre pezzi da cento che nessuno finora ha voluto cambiarmi perché appartenenti ad una serie che in passato è stata falsificata. Sono seriamente tentato di abbandonare il pacco al proprio destino, anzi se non avessi promesso di portarne il contenuto in Italia lo farei immediatamente. Vado al cambio dell’aeroporto per vedere se per caso le cambiano e, al secondo e ultimo tentativo, trovo chi le cambia. Quasi mi dispiace. Vado a incassare gli 80$ che la compagnia aerea Taca mi deve per lo scherzetto che mi ha fatto all’andata ma non riescono a godermeli dopo il furto che ho appena subito. Anche stavolta il bagaglio lo mandano alla destinazione finale mentre al primo stop over, stavolta a Bogotà, dovrò chiedere le carte d’imbarco che qui non riescono a farmi.

 

Ragazza Yagua

Ragazza Yagua - Archivio Fotografico Pianeta Gaia

 

Giunto nell’aeroporto della capitale colombiana, mi presento al gate e mostro, per comodità, il tagliando del bagaglio che è già stato inoltrato, così l’addetta può vedere in un colpo solo i vari scali che devo fare, che riporta bagaglio1/15gk e bagaglio2/16kg. L’addetta capisce fischi per fiaschi, si fa l’idea che io abbia due bagagli per un totale di 31 kg e non, come è, per un totale di 16 kg e comincia a dire che devo pagare un sovrapprezzo. Mi sembra di sognare. Le dico, e non sono per niente sorridente, che già ho dovuto pagare una fortuna per caricare quei bagagli, che non ci penso neanche a pagare ancora. Chiama la sua supervisore che inizialmente pare dare ragione all’addetta ma io gli faccio presente che i bagagli sono già stati spediti alla destinazione finale, se io non pago cosa fa, li va a fermare in mezzo alla pista? Si rende conto che ho già pagato quanto dovevo, mi chiede di mostrarle la ricevuta del sovrapprezzo che ho pagato, la mostro e lei dice ok, emette il sudato boarding pass ma non mi restituisce la ricevuta. “Serve a noi come documentazione interna”. Da quando in qua la ricevuta se la tiene chi incassa e non chi paga?

 

Insisto per riaverla, sia per evitare ulteriori sorprese da questa manica di incompetenti sia per dimostrare quanto sborsato a chi chiedere un almeno parziale rimborso. Se gli serve che se ne facciano una fotocopia. Non si può, l’ufficio è da un’altra parte. La guardia giurata che è a fianco del gate ha seguito tutta la discussione e dopo che me ne sono andato imprecando mi suggerisce di rivolgermi all’impiegata della sala VIP. Ci vado ma mi dice che lei non può fare nulla, ma un suo collega mi suggerisce di fare una foto col cellulare. È un’idea. Torno al gate, ringrazio la guardia giurata che si è dimostrato più intelligente e collaborativo delle due impiegate, torno dalla supervisore e le chiedo di lasciarmi la ricevuta il tempo di fare una foto. “Va bene”, dice. Allora svuoto mezzo zaino per tirare fuori la macchina fotografica, prendo il biglietto, lo posiziono su una poltroncina, cavo il copri obiettivo, tolgo il paraluce che sennò col flash fa l’ombra e un secondo prima che scatti la foto, l’impiegata mi dice: “Se la può tenere, gli abbiamo scattato una foto noi”. Mi pare di essere su una Candid Camera. Prendo il pezzo di carta e prima di mettermelo in tasca gli do un’ultima occhiata. Scritto in grande, in alto a destra appare: “MR. ROBERTO CORNACCHIA, THIS IS YOUR RECEIPT”. Ma che manica di imbecilli…

 

Amazzonia - I

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Amazzonia - XIII

 

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