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17 - L'asticella non è mai troppo bassa
Ultimo giorno tra le montagne del Nord: stasera rientrerò in treno ad Hanoi. Ormai le etnie che volevo vedere, grazie alla mia cocciutaggine, le ho viste: chiaro che mi spiace di non aver visto la parte nord orientale ma non me ne faccio un cruccio, mi sarebbe dispiaciuto maggiormente essermi perso il mercato di Sin Ho, specie dopo aver toccato con mano quanto sia bello e autentico. Ieri sera ho detto al pilota che oggi mi sarebbe piaciuto andare al villaggio di Nam Cang, l'unico in zona abitato dagli Xa Pho, un sottogruppo dei Phu La ma ha detto che era troppo lontano, che non glie l'avremmo fatta in giornata. Non ci credo: il villaggio si trova a 35 km da Sapa, anche ammesso che si viaggi ai 15 km/h (e non è credibile perché la prima metà è asfaltata) lo raggiungeremmo in un paio d'ore ma non ho voglia di affrontare un altro estenuante braccio di ferro. Sto invecchiando. Gli dò appuntamento alle 10:00 così ha tutto il tempo di rilassarsi, e io torno sulla strada che avevo percorso il tardo pomeriggio precedente. Non so esattamente dove porti ma non mi interessa particolarmente. Cammino lungo la strada e ogni tanto mi affaccio sul bordo per riprendere il paesaggio, fino a quando arrivo di fronte ad una cabina. C'è un pedaggio da pagare: 40.000 dong, il doppio che a Ta Phin. Non mi pare l'ingresso ad un villaggio e non ho voglia di farmi spillare dei soldi: sto solo andando a zonzo, porca miseria. E' una di quelle piccole cose che mi fanno innervosire: allora, di proposito, cammino spedito fino al limite per superare il quale bisogna pagare e, 10 centimetri prima, faccio un provocatorio dietro-front e poi saluto con la mano come per dire: "Piuttosto che pagare, torno indietro". La cosa suscita l'ilarità dei 3 o 4 tipi che stanno nei dintorni della cabina e uno mi fa segno di passare a gratis. Eh no, ormai ho fatto la sceneggiata e la porto fino in fondo, che diamine!
Torno indietro e incontro alcuni gruppetti di turisti che vanno verso il punto da cui io sto tornando: sono tutti "accompagnati" da un gruppetto di H'mong Nere almeno pari in numero. A sto punto, non mi rimane che scendere per il fianco della montagna. Trovo qualche angolo delizioso che la luce che comincia a trapelare tra le nuvole illumina a dovere: il cielo aiuta gli audaci. E i testardi. Rientro in città, ritrovo il pilota e gli dico: "Allora, visto che conosci Sapa e dintorni come le tue tasche, dove mi porti oggi?". Non è molto propositivo, l'impressione è che, se fosse per lui, non si sposterebbe dalla piazza di Sapa. Si parte e dopo un po' arriviamo all'ingresso a pagamento dove stamattina avevo fatto il dietro-front. Stavolta i 40.000 dong li pago e valgono per tutta la Muong Hoa Valley. Ogni tanto faccio fermare per una foto, specie per le risaie che in alcuni casi sono allagate e quindi offrono opportunità fotografiche se si sfrutta il riflesso. I paesaggi sono incantevoli. Con lo stesso entusiasmo di un venditore di auto usate mi consegna davanti al Museo delle Antiche Pietre Scolpite: scoperte nel 1925 da un francese, si tratta di lastre a volte di enormi dimensioni (la più grande è di 15 metri per 6 di altezza) con disegni di paesaggi, esseri umani e almeno 3 diversi sistemi di scrittura con simboli. Non ci sono certezze sulla datazione ma, da alcune pietre similari trovate in Cina e dal fatto che le pietre di questa zona non paiono influenzate dalla cultura Han che ha messo piede in queste terre verso l'inizio dell'era cristiana, si ritiene abbiano più di duemila anni. Nel museo vi sono solo pannelli con fotografie e spiegazioni, non le pietre.
Andiamo fino a Ban Ho, villaggio di Thai e Giay che si raggiunge dopo un ulteriore pezzo di strada bianca dopo essere arrivati al culmine della strada asfaltata che procede verso sud. "Very beautiful minorities" dice pomposamente il pilota. Ci sono anche delle Dao Rosse, un po' insistenti ma simpatiche e le faccio impazzire un po' coi miei trucchetti infantili. Appena arrivati il pilota pare aver già piantato le tende presso una grande casa tradizionale dove pranzeremo perché si mette a spadellare con la cuoca. Ho capito, mi vado a fare un giro in solitaria. Dopo un po' rientro verso il centro del villaggio dove vedo un gruppo di mountain bikers attraversare il ponte che unisce le due parti del villaggio separate dal fiume, con le Dao che li inseguono di corsa cariche dei loro prodotti da proporre. La scena mi fa ridere e la seguo: i ciclisti si infilano tutti nel cortile della stessa casa dove a breve dovrei pranzare anch'io e le Dao cercano di entrare anche loro, col proprietario di casa che riesce a chiudere il cancello solo dopo che una metà del gruppetto delle inseguitrici si è infilata nel cortile. Le altre rimaste fuori, a questo punto vengono da me e io gioco con loro, le faccio ridere anche se non compro niente. Poi vado anch'io a mangiare, piuttosto bene per gli standard ai quali ormai mi sono abituato in Vietnam. I ciclisti sono una decina, sia uomini che donne, e sono assistiti da due vietnamiti anche loro in mountain bike e abbigliamento da ciclista. Non hanno zaini, al massimo una macchina fotografica tascabile che sta in una tasca e ognuno ha il proprio nome su un cartellino plastificato fissato alla bicicletta. Senza dubbio provengono da Sapa dove saranno partiti in mattinata. Più impegnativo sarà il rientro, ché fin qui è stata quasi tutta discesa. Le donnine Dao ormai sono riuscite pian piano ad entrare tutte nel cortile e visto che il pranzo è terminato si stanno avvicinando al tavolo per proporre i loro ninnoli, ma senza essere invadenti.
I "parastinchi" delle Hmong Nere - Archivio Fotografico Pianeta Gaia
Dopo pranzo torniamo in moto e il pilota si inerpica per unpo' lungo la strada che attraversa il villaggio ma poi, finite le case senza niente di particolarmente interessante, torna indietro. Il pilota fa per andarsene e allora lo fermo per fotografare una delle Dao Rosse che avevo puntato ma aspettavo di beccarla da sola per non dover rintuzzare le richieste dell'intero gruppo. Riprendiamo la strada asfaltata in direzione Sapa, sorpassiamo il gruppo di ciclisti che, dopo appena pochi chilometri, si è già largamente sfaldato e quando siamo al bivio per Ta Van, che all'andata avevo chiesto di includere fra le visite odierne, il pilota tira dritto. Gli batto la spalla e glie lo ricordo. "Ci sono le stesse minoranze dell'altro villaggio", sbuffa. Non c'è verso, per quanto uno possa abbassare l'asticella è sempre troppo alta: pensava di liberarsi visitando un unico villaggio in tutta una giornata, come se non si fosse ancora reso conto con chi ha a che fare. Intanto però a Ta Van ci andiamo, anche se il pilota palesemente seccato mi scarica in centro e mi lascia gironzolare da solo. Trattengo le lacrime a stento... Ta Van è un villaggio Giay e, da quello che leggevo prima di partire, è uno dei siti più visitati da chi fa trekking. Difatti ci sono alcuni negozietti e lungo la "strada principale" del paese, un sentiero non asfaltato, arrivano con frequenza turisti a piedi con gli scarponi, presumibilmente provenienti da Sapa. Ma non c'è quella calca e quella sensazione finta che mi aspettavo quando leggevo gli ironici commenti sul "Ta Van boulevard".
Rientro a Sapa, raccolgo lo zaino all'albergo e poi mi faccio portare alla stazione degli autobus, presso la quale prendo il bus per Lao Cai, dove mi incontrerò col t.o., al quale devo pagare il tour, anche lui in procinto di tornare ad Hanoi in treno. Saluto il pilota e, nonostante la mancia, il suo addio non è particolarmente caloroso: gli si legge in faccia che non ne poteva più. Bisogna entrare scalzi perché è un bus notturno, difatti i sedili imbottiti in pelle sono già tutti stesi. Poiché eravamo passati a prendere il biglietto un paio d'ore prima, mi hanno dato il posto numero 25, nell'ultima fila in fondo, come si cercava sempre di fare nelle gite scolastiche. Di fianco a me un posto vuoto e poi una coppia apparentemente scandinava dal lato opposto. Dovrebbero trovarsi a loro agio perché dai bocchettoni dell'aria condizionata esce un getto di aria talmente fredda che potrebbe congelare un pinguino, ma anche loro stanno belli imbacuccati nei giubbotti sopra ai quali aggiungono le coperte in dotazione. Poco prima di partire sale un vietnamita che pare moribondo, si getta nel posto vuoto fra me e i nibelunghi e pare addormentarsi di colpo ma di un sonno sofferto, geme in continuazione, al punto che i due scandinavi lo guardano preoccupati. Si parte e stanco di patire il freddo tiro fuori il rotolo di nastro americano che porto sempre con me e, non visto, tappo ermeticamente i due bocchettoni che mi torturano. Va mo là. Lao Cai dovrebbe essere la prima tappa, a circa un'ora dalla partenza, l'ultima Hanoi. Averlo saputo prima potevo risparmiarmi di farmi prenotare il treno ma ormai fa lo stesso. Quando è il momento scavalco non senza qualche difficoltà il moribondo vietnamita, che non si sposta nemmeno con le cannonate e forse sta male davvero, e giungo in testa al pullman dove, quando dico che devo scendere a Lao Cai, pilota e controllore paiono cadere dalle nuvole. Meno male che mi sono palesato.
Scendo un po' in ritardo, telefono al t.o. perché ancora una volta non trovo sto benedetto Terminus Restaurant e ci incontriamo. Non ho tutti i soldi che gli devo e gli chiedo di pazientare un attimo: vado al cash dispenser che c'è nella piazza ma non mi dà soldi. Il titolare mi dice di non preoccuparmi, glie li darò ad Hanoi. A sto punto mi trovo una giornata inaspettata da organizzarmi. Chiedo al t.o. se ha qualche consiglio. Non si dimostra particolarmente fantasioso, suggerendomi un giro della città o un'escursione alla baia di Halong, entrambe cose già fatte nel mio viaggio precedente. Poi ci separiamo perché deve passare da casa e comunque lui viaggia negli scompartimenti più economici, quelli da sei posti e, credo, senza materassi. Io invece sono in quelli da quattro cuccette, sotto una coppia vietnamita, sopra io da una parte e una ragazza occidentale dall'altra, la quale non ha mai aperto bocca, sempre immersa ad ascoltare musica dal suo ipod. Poco male, ho la Lonely Planet da consultare per farmi venire qualche idea per l'indomani.
18 - Dal placido fiume al formicaio umano
La notte ha portato consiglio: non lontano da Hanoi, sicuramente fattibile in giornata, c'è Ninh Binh dove ci sono un paio di cose interessanti. Il più sta nel vedere se, dicendolo la mattina stessa, si riesce a trovare un tour giornaliero nel quale infilarsi. Quando scendo dal treno, alle 6:00 di mattina, lo comunico subito col t.o. il quale mi dice che non ci dovrebbero essere problemi: di norma questi tour partono sulle 8:00/8:30 e dovrebbe riuscire a trovarmi un posto in tempo. Mi darà un colpo di telefono verso le 7:00 per conferma. Intanto vado a cercare un cash dispenser: lo trovo e stavolta fa il suo dovere. Puntuale mi chiama il t.o. e mi dice che ha trovato un posto per un tour giornaliero, con un giro in bicicletta facoltativo da pagare a parte. Un centinaio di km di pullman all'andata, visita ai templi di Hoa Lu, pranzo a buffet, giro in barca a Tam Coc lungo il fiume Ngo Dong di circa un'ora e rientro in autobus per un prezzo decisamente onesto.
Paesaggio carsico nei pressi di Hoa Lu - Archivio Fotografico Pianeta Gaia
Mi faccio portare al luogo convenuto e, mentre aspetto il pullman, faccio una colazione decente come era da settimane che non facevo. Salgo sul pullman e saremo una ventina di turisti, in maggioranza francesi, tanto per cambiare, ma anche tedeschi, australiani. Il vecchietto al mio fianco, avrà almeno 70 anni, è svedese. Da solo, macchinetta fotografica al collo e zaino in spalla, mi piace pensare che alla sua età sarò ancora in grado di andare in giro per il mondo come fa lui. Dopo un po' c'è la classica fermata presso il negozio di souvenir convenzionato (mi ero dimenticato come funzionano questi tour economici) e non ce la faccio ad entrare, nonostante fuori il tempo sia grigio e spiovicchi. Prima di giungere a destinazione ci imbattiamo nel gigantesco stabilimento della Hyunday Vietnam, uno dei tanti colossi occidentali (come Ford, Peugeot, Nike, Intel, Microsoft, IBM, Sharp, L'Oreal, Bayer, Danone, Nestlé, Pfizer, Sanofi-Aventis, l'italiana Electrolux-Zanussi, ecc.) che hanno scelto il Vietnam come base per le proprie produzioni industriali dopo l'apertura, quattro anni fa, della politica del doi moi (porte aperte) all'Occidente, nonostante l'assenza di una Borsa e i ciclici dubbi sulla reale volontà del governo guidato da Vo Van Kiet di calarsi nell'arena del mercato globale.
Giungiamo a Hoa Lu e visitiamo i due templi, parecchio simili tra di loro, dedicati rispettivamente agli imperatori Dinh Tien Hoang e Le Dai Hanh. Il primo fu il fondatore della Dinastia Dinh, la prima delle tre originarie di questa città, colui che per primo unificò il Vietnam fino ad allora diviso ed elesse la sua città natale a capitale del paese, condizione che mantenne per 45 anni fino a quando il re Ly Cong Uan non decise di spostarla a Hanoi. Sono luoghi sereni, circondati da ombrosi parchi e costruiti secondi i criteri del feng-shui. C'è meno serenità nello spiazzo che precede i due monumenti: le venditrici di souvenir possono essere piuttosto pervicaci, come sempre non bisogna tentennare per non farsi assalire. Usciti dai templi si può scegliere se raggiungere Tam Coc in pullman o in bicicletta. La metà più giovane del pullman sceglie come me la busta numero due e ci forniscono di non proprio fiammanti biciclette da donna per circa 3 euro. La prima mezz'ora è decisamente gradevole: si passa in mezzo alle spettacolari formazioni carsiche di questa zona e ci sono diversi spunti fotografici. La seconda mezz'ora invece si attraversa una piatta ed insignificante pianura, su una strada non asfaltata, resa meno fangosa dal sole che è uscito e sta diventando cocente. Passiamo a fianco di un cartello che indica "Grotta di Mua" ma non è prevista la sosta: peccato, perché so che dall'alto si sarebbe potuto godere una scenografica vista del fiume che serpeggia in mezzo ai picchi ma ora non è più come prima, quando potevo imporre al pilota dei cambiamenti di itinerario.
Giungiamo a Tam Coc, pranziamo e poi andiamo al porticciolo dove io e il nonno svedese siamo i primi del gruppo a salire. Peccato che non sia magrissimo e averlo davanti mi toglie un po' di visuale per le foto. Le barche sono piuttosto piccole, di norma contengono due turisti e sono guidate da uno o due rematori, per la maggior parte donne, che vogano usando i piedi. Lo scenario in cui scivoliamo silenziosamente, benché circondati da decine di barchette come la nostra, è a dir poco spettacolare: imponenti ammassi di rocce dalle pareti verticali incombono sulle nostre teste mentre, nell'acqua non più profonda di un metro, si incontrano locali che pescano minuscoli gamberetti di fiume tramite delle trappole artigianali. Si attraversano alcune grotte dove a malapena si passa fino a quando si giunge al capolinea dal quale si torna indietro. Qui ci avvicinano le barchette delle venditrici, definite dalla Lonely Planet "assatanate", ma in realtà le respingiamo senza particolari sforzi, così come il tentativo di venderci cianfrusaglie operato dalle stesse vogatrici.
Tornati al porticciolo si rientra ad Hanoi, anche se, causa traffico, pare non si giunga mai a destinazione. Mi rimane qualche ora prima di farmi portare in aeroporto, dove ho il volo di ritorno a mezzanotte meno cinque, tempo che trascorro tuffandomi nel Quartiere Vecchio. Questa zona della città, cuore storico della capitale, è caratterizzata da vie strette e vecchi edifici, e sembra non avere nulla da spartire con la Hanoi dei larghi viali, dei parchi attorno ai laghi e delle antiche pagode. Nel '700 le 36 corporazioni (ora più di 50) si stabilirono in questo quartiere, ognuna in una via diversa alla quale hanno dato il nome: Via della Seta, Via dei Fabbri, Via dei Pescatori, Via degli Argentieri ma anche Via delle Cipolle, Via dei Vermi da Pesca, Via delle Bare.
Il Quartiere Vecchio è il paradigma dell'Asia iperattiva che abita il nostro immaginario collettivo: marciapiedi brulicanti di gente, nonostante camminarvici sia spesso un percorso ad ostacoli in mezzo alle merci; strade invase da motorini, al punto che attraversarle può a prima vista apparire uno sport estremo; ristorantini, magari costituiti da un semplice fornelletto e qualche sgabello di plastica, ad ogni angolo; negozi, a volte niente di più di un corridoio le cui pareti sono interamente oscurate dagli articoli in vendita, che straripano sui marciapiedi; localini alla moda i cui dehors hanno ormai chiuso le stradine al traffico; pali della luce dalla quale si dipartono decine e decine di cavi disordinatamente aggrovigliati. I negozi sono tutto, contemporaneamente: attività, salotto e luogo di socializzazione. Una famiglia cena in mezzo alle merci da fumanti ciotole; una mamma-commessa bada a clienti e al bimbo urlante; dei ragazzi guardano la partita alla tv e altri giocano ai videogames mentre tengono d'occhio il negozio; alcune ragazzine completamente assorte nello smanettare al cellulare presidiano un negozio di abbigliamento. E come non bastassero i negozi già esistenti, c'è sempre qualche venditore ambulante che passa o che si piazza nel primo buco libero: credo che l'apparato statale dell'intero paese potrebbe campare di rendita sulla tassa di occupazione del suolo pubblico, se esistesse.
S'è fatta ora di rientrare, prendo l'ultimo xe om e mi faccio portare all'ufficio dove, presi i bagagli e pagato il dovuto all'impiegata del t.o., c'è già il taxi che mi aspetta per portarmi all'aeroporto. Nel tragitto passiamo davanti all'Opera House di Hanoi, costruita dai francesi a inizio secolo, illuminata da grandi fari. L'eleganza dell'edificio fa il paio con l'algida raffinatezza del vicino negozio di Gucci, che ha addobbato per Natale gli alberi e le piccole aiuole del viale dove è posizionato: un'immagine di lusso ed eleganza che stride un po' con la vivacità un po' sguaiata del Quartiere Vecchio. Sono queste istantanee da vera tigre asiatica economica le ultime che si imprimono nelle mie retine, anche se per tutto il resto del viaggio ho visto l'altra faccia del Vietnam, quello più tradizionale, ancora legato al duro lavoro quotidiano e ai ritmi della terra. Un paese che sta cambiando, che ha ormai, come il suo ingombrante vicino, palesemente abbandonato gli insegnamenti dello Zio Ho e ha cominciato ad applicare il cosiddetto "comunismo di mercato", palesemente ispirato a quello dello storico nemico cinese, nella speranza di conquistare un posto al sole a fianco delle più vivaci economie dell'area come quelle tailandesi e malesi.
Risaie, una caratteristica del paesaggio vietnamita a qualsiasi latitudine - Archivio Fotografico Pianeta Gaia
19 - Conclusione e conclusioni
Il volo parte regolare, la trasvolata è tranquilla come tranquillissimo è il mio vicino di posto, un anziano francese che non mi rivolge mai la parola, assorto com'è nel compilare i suoi sudoku e a registrare, e me ne sfugge il motivo, gli orari in cui sorvoliamo determinate città segnalate dalla classica schermata durante il volo. Non mi rimane che sornacchiare, per cercare di annullare il jet lag visto che domani sarò in ufficio. Giunto a Varsavia ho un'attesa un po' più lunga dell'andata ma comunque non particolarmente scomoda, poi giungo a Milano. Di nuovo shuttle-bus per Milano Centrale e prendo il primo treno che non sia una costosa Freccia Rossa: stavolta è un EuroStar (l'InterCity c'è solo dopo quasi 3 ore) da 35,00 euro. Ho preso un quotidiano per riallinearmi un po' con quello che è successo in mia assenza: scopro che Berlusconi s'è dimesso il giorno stesso della mia partenza e ora il governo Monti si appresta a dettare l'onerosa agenda per mettere in riga i conti.
Tirando le somme, è chiaro che non tutto è andato alla perfezione, anche se sono ugualmente molto soddisfatto del viaggio e dei posti visti. Certo il pilota/guida (quanto sopra riportato su di lui l'ho un po' colorito ma non c'è una sola virgola inventata), si è rivelato ben presto essere niente di più di un pilota. Benché avessi specificamente chiesto qualcosa di più di un mero driver, onestamente mi rendo conto che la mia fosse una richiesta un po' presuntuosa: chi conosce le lingue e i posti così bene da farne il proprio mestiere viaggia sull'auto dei turisti più facoltosi o al massimo sul pullman del gruppo che si avvale dei suoi servigi, di certo non si spacca la schiena a guidare per chilometri una moto su strade impossibili. Col senno di poi avrei potuto farne a meno? Non credo, per lo meno non col tipo di viaggio che volevo fare, che prevedeva frequenti uscite dalle rotte più battute. A parte che si è tranquillamente infilato giù per strade nelle quali io da solo non mi sarei mai avventurato per paura di spaccare la moto, rimane il fatto che la conoscenza della lingua, sia per trovare la strada giusta per il villaggio sconosciuto che anche solo per chiedere ai locali di fare una foto col "vestito buono", è di per sè motivo sufficiente per necessitare dell'apporto di un locale. Però chi non ha il mio maniacale interesse per le minoranze etniche e può quindi accontentarsi di restare sempre sulle strade più importanti e non ha bisogno di stanare i villaggi più nascosti, può farne a meno: difatti qualche sparuto bianco che girava in motocicletta in questo modo l'ho incontrato, però sempre nelle più tranquille strade asfaltate di collegamento tra una città e l'altra.
Il mezzo Avrebbe potuto essere la classica Minsk 125 usata anche nel viaggio precedente ma alla fine è stata una Honda Wave 110 cc, una specie di scooter con le marce. Certo, fare il viaggio in un paese (sulla carta) comunista con un mezzo prodotto nell'ex blocco sovietico avrebbe avuto un altro sapore ma il rischio di perdere molto tempo a farlo riparare, con i pezzi di ricambio sempre più difficili da reperire visto che è fuori produzione da quasi un ventennio, non mi fa pentire della diversa scelta. Come ho trovato scritto da un giornalista inglese: "La Minsk è più una bella idea che una bella moto. Guidarne una per le strade del Vietnam è stato romantico ma anche una delle esperienze più faticose di tutta la mia vita".
Il Vietnam delle montagne - II
Il Vietnam delle montagne - III
Il Vietnam delle montagne - IV
Il Vietnam delle montagne - VI